Il CES 2016 (per sentito dire)
L’International Consumer Electronics Show di Las Vegas, per gli amici CES, quest’anno ha avuto una risonanza enorme. Quattro giorni (dal 6 al 9 gennaio) in cui non abbiamo sentito che parlare di droni, smart houses, stampa 3d e altre amene amenità. La sua onda lunga non si è ancora esaurita. Così, nonostante fossi in altre faccende […]
L’International Consumer Electronics Show di Las Vegas, per gli amici CES, quest’anno ha avuto una risonanza enorme. Quattro giorni (dal 6 al 9 gennaio) in cui non abbiamo sentito che parlare di droni, smart houses, stampa 3d e altre amene amenità. La sua onda lunga non si è ancora esaurita. Così, nonostante fossi in altre faccende affaccendata, approfitto della gentilezza di un amico che ha avuto la fortuna di andarci, e scandagliando le diciotto tonnellate di materiale che mi ha rovesciato in google drive, riesco a farmi un’idea più o meno precisa di ciò che la tecnologia ci sta riservando quest’anno. Emozionata? Stupita? Eccitata? Beh, una cosa per volta…
Ringraziamo Raffaele Castagno per la preziosissima ricerca, per le fotografie e per i racconti. Il suo articolo, in inglese, è disponibile qui.
I filoni principali
Se chiedete a chi c’è stato e se leggete i resoconti di chi dice di esserci stato, le principali tendenze di questo CES sembrano essere cinque:
1. Droni;
2. Stampa 3d;
3. i cosiddetti wearables, principalmente per realtà virtuale e realtà aumentata;
4. Internet of Things;
5. Automotive, connected cars, DeLorean e altre auto del futuro.
E se state pensando Tutto qui?, state pensando la stessa cosa che ho pensato io. Sono tecnologie che ci sembrano vecchie. Alcune di queste vengono discusse e utilizzate da decenni. Altri invece, come la Internet of Things, sono concetti vecchi cui abbiamo trovato un vestito nuovo (vestito che, per inciso, ultimamente è quasi più popolare di quello addosso a Sarah Hyland nei Golden Globe). Credo però che la chiave non sia nell’innovazione ma nella diffusione e nell’accessibilità delle tecnologie, nell’applicazione (potenziale) sul quotidiano. Finalmente.
O forse no?
PS: per non deludere chi potrebbe arrivare alla fine dell’articolo con false aspettative, non parlerò di automotive.
– I droni –
L’intera idea dietro alla diffusione dei droni è che puoi buttare per aria qualcosa che faccia quello che prima dovevi fare con un elicottero, con un paracadute o con tuo cugino sulle spalle. Ora, per quanto mi riguarda, appoggio l’idea. Intanto perché soffro di vertigini. E secondariamente perché io sono mingherlina e mio cugino pesa una tonnellata. Stiamo naturalmente parlando solo dei droni volanti, i cosiddetti UAV (Unmanned Aerial Vehicles), lasciando per un momento da parte i robottini che spazzano il pavimento o quelli che vi fanno il caffè (ma solo se gli sorridete, a dimostrazione che l’integrazione tra uomo e robot ha ancora molta strada da fare).
In Italia, stiamo attraversando un momento un po’ particolare, abbastanza frequente quando si tratta di nuove tecnologie. Una fase che potremmo definire l’era di Philip Dick, quella in cui le nuove tecnologie sono accolte con solare ottimismo. E, se non mi credete, consultate il nuovo regolamento Enac e fatevi due risate: la sperimentazione tecnologica, di questi tempi, è una sorta di atto carbonaro.
Negli Stati Uniti, invece, la situazione è leggermente migliore. Alcune risposte stanno arrivando alla richiesta di rendere più sicuro l’utilizzo di questi piccoli amici volanti, e la più originale presentata al CES sembra essere la Fleye, amichevolmente soprannominata l’insalatiera. Lanciata su kickstarter come “World safest Drone”, ha raccolto il consenso di oltre 700 investitori raggiungendo un livello di oltre 300.000 €. Si tratta di un drone compatto, racchiuso in una struttura protettiva, di grandezza e peso assimilabili a quelle di un pallone da calcio. Forse la cosa non tranquillizzerebbe l’Enac. Probabilmente non riuscirebbe a tranquillizzare nemmeno Xkcd. Si tratta tuttavia di un ulteriore importante passo per rendere più amichevoli queste tecnologie agli occhi del grande pubblico, e sappiamo bene che senza successo di pubblico nessuna tecnologia può decollare. Chiedendo umilmente perdono per l’orribile gioco di parole.
Per quanto riguarda il mio settore, ovvero l’utilizzo dei droni per il rilievo, il problema tuttavia non è mai stato relativo né alle dimensioni né (salvo disastri) alla sicurezza degli stessi: i problemi sono principalmente di stabilità e di strumentazione a bordo (i primi tranquillamente superabili grazie ai secondi). In questo senso, la novità più interessante del CES sembra essere l’eXom di SenseFly. Pensato esattamente per il rilievo di edifici, è dotato di GPS, videocamera, sensori ultrasonici, scudi termici e alabarda spaziale. Viene integrato con il mapper di Pix4d. Nonostante sia già atteso con trepidazione dopo l’annuncio su numerose testate specialistiche, il prodotto non è ancora disponibile. Potrebbe trovarsi sulla letterina di tutti noi il prossimo Natale. Agli indecisi suggerisco di dare un’occhiata all’ottimo whitepaper.
Il premio “neanche se mi paghi” va invece al nuovissimo Ehang 184, il drone che è in grado di trasportare autonomamente un passeggero senza alcuna richiesta di pilotaggio. In linea teorica, il suddetto passeggero non deve far altro che immettere su un tablet la destinazione desiderata e premere “decollo”. Ottimo per riportarvi a casa dopo una notte brava, quindi, ma ho letto troppi Urania per fidarmi davvero. Viaggia a circa 28 m/s, si può alzare fino a 3 metri e mezzo, ha un’autonomia di 23 minuti e porta fino a 100 chili. Costerà tra i $200,000 e i $300,000. Un po’ tanto, per mandarci la nonna a fare la spesa. Non potrebbe nemmeno comprare le bottiglie dell’acqua.
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Il premio “migliore amico dell’uomo solo” va a Lily, di cui avrete senz’altro sentito parlare: Lily è il drone che ti segue mentre scii (e non ha da ridire sul tuo modo di impostare gli slalom quando siete arrivati a fondo valle). Vincitrice del CES 2016 Innovation Award, ha il merito di essere fondamentalmente una videocamera mascherata da drone. Pesa 1.3 kg (un disastro per la normativa italiana che pone a 1.2 kg un vincolo oltre il quale l’utilizzo dei droni, già complesso, minaccia di diventare a dir poco ingestibile). Registra a 1080p60, è impermeabile, costa “appena” $800. E per convincerla a seguirvi in giro dovete semplicemente indossare un bracciale, quindi è decisamente più semplice di una fidanzata, cosa che il nome femminile sembra decisamente voler suggerire.
– Stampa 3d –
Sono un’entusiasta, intendiamoci. Entusiasta in generale ed entusiasta di questa tecnologia. E l’entusiasmo non può che confermarsi vedendo la tecnologia applicata a protesi come arti artificiali (che onestamente mi rifiuto di considerare wereables come invece ho visto fare ad alcune testate specialistiche). Non posso fare a meno di avere l’impressione, tuttavia, che l’applicazione della stampa 3d ricada quasi esclusivamente in due ambiti diametralmente opposti: quello della medicina e quello della fuffa. Non vi parlerò della fuffa (stampanti che stampano Dalek, cibo o vestitini discutibili per ragazze giapponesi). Per quanto riguarda la prototipazione rapida, il mio settore d’interesse, trovo ancora un grande accento sulla varietà dei materiali ma pochissima attenzione a quello che è il principale ostacolo nel workflow, ovvero la preparazione rapida di un modello che non nasce per essere stampato.
La nostra era della sperimentazione non si è ancora spinta a pieno in quella direzione (reggetevi forte perché potrebbe essere il prossimo regalo che faccio a qualcuno di voi). Nel caso me ne venisse voglia, si parla molto bene della DaVinci di XYZ Printing. Piccola, compatta, esterno che piace agli architetti. Sembra avere tutte le carte in regola per poter stampare bene e in fretta almeno i modellini nelle fasi concettuali del progetto. Mi accontenterei volentieri.
Inoltre, per i miei amici informatici là fuori, pare che sia finalmente disponibile sul mercato la famigerata Voxel8, la stampante che si vantava di poter stampare i circuiti elettronici.
– Wearables –
Vengono definiti wearable tutti quegli apparecchi tecnologici che richiedono di essere indossati. Lo scrivo soltanto perché mi è capitato che qualcuno parlasse di una camera immersiva come di una wearable e il suo cliente non era Godzilla.
Esistono wearables bioreattivi (quei dannatissimi braccialetti con cui le amiche possono farti vedere quanto hanno corso oggi, per esempio). A questo proposito, nonostante io non sia un’appassionata del genere, devo segnalare il braccialetto Lightwave recentemente proposto per i rave e utilizzato durante un interessante esperimento che registrava le risposte biometriche degli spettatori a Revenant.
Per il nostro settore tuttavia sono decisamente più interessanti quei wearables destinati a realtà virtuale e realtà aumentata. Ora, non sono una grande fan della realtà virtuale immersiva, specie quando comporta una deprivazione sensoriale che non reputo del tutto sana. Ho inoltre i miei dubbi circa l’effettivo aiuto che potrebbero fornire al nostro settore tecnologie come gli Oculus Rift. Ha senso immergere il cliente nel modello dell’edificio, se questo non comporta riuscire a trasmettergli a pieno le sensazioni e le emozioni che l’edificio terminato potrà trasmettergli? E fidatevi, per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente un’immagine: bisogna lavorare anche e soprattutto sugli altri sensi, sui profumi e sui suoni, sulla temperatura della stanza, su piccole suggestioni ricevute dall’ambiente fisico. Andiamo quindi verso il concetto di camera immersiva, volendo, mentre le tecnologie di wearables basate sulla sola vista (Oculus Rift, PlayStation VR, HTC Vive) sono forse destinate a rimanere relegate nel mondo del videogiochi. Da leggere in questo senso, a mio parere, la mossa di Google Cardboard: puntando sulla realtà aumentata, più che su quella virtuale immersiva, Google sta fondamentalmente dicendo che i visori sono un giocattolo e chiunque può costruirsene uno con poco. Una mossa che condivido e appoggio.
Per quanto riguarda invece la realtà aumentata, la scena è straordinariamente fertile e sono sempre stata molto ansiosa di seguirne gli sviluppi, sin da quella notte di primavera in cui si testarono i Google Glass dopo molti bicchieri di tanavà. E se l’esperimento dei Google Glass è stato felice fino a un certo punto, complice una certa immaturità della tecnologia, sono fiduciosa che questo non abbia bruciato l’espansione del settore. Ne è interessante indizio la comparsa al CES di Smart Firefighting Helmet e Smart Building Helmet di Daqri, che promettono di aggiungere alla realtà un layer di informazioni, e l’iniziativa di Fusar che promette un sistema per rendere “smart” ogni tipo di casco con visore.
Agli appassionati di wearables, e principalmente ai fan di Misfit, consiglio la mostra Manus x Machina: Fashion in an Age of Technology, organizzata dal Costume Institute, che si terrà al Metropolitan Museum of Art di New York dal 5 maggio al 14 agosto.
– Internet of Things –
Nonostante il mio informatore Raffaele Castagno abbia già scritto molto e cose molto interessanti riguardo alla Internet of Things e ai possibili approcci di un utente, mi si permettano un paio di riflessioni “di settore”, specie considerato il grande accento che Autodesk sta recentemente ponendo sull’argomento.
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Durante la scorsa convention di Milano nel ciclo The Future of Making Things, molto si è detto ma poco si è spiegato riguardo alle possibili applicazioni della Internet of Things nel settore delle costruzioni. Tanto per cominciare, non si parla di sensori né di domotica. I sensori si limitano a registrare un’informazione e trasmetterla all’utente, ma non intraprendono alcuna azione. La domotica invece attende l’input dell’utente per intraprendere le azioni del caso. Quando si parla di Internet of Things, si parla di smart house nel senso più fantascientifico del termine: una casa in cui tutta la strumentazione è interconnessa (si veda ad esempio la Nest Protect App, che collega rilevatori di fumo, termostati, videocamere e lampade) e agisce di concerto sulla base di uno stimolo. Qualcosa che Philip Dick avrebbe adorato, per intenderci (obbligatorio leggere racconti come “Some kind of life”, per parlare di Internet of Things).
Oltre ai sensori Nest, questo CES ci presenta alcune possibili e interessanti applicazioni della Internet of Things a un’abitazione finita, dalle strumentazioni mediche ai vasi per le piante (il Pot di Parrot, che legge automaticamente l’umidità nella terra e decide, sulla base della pianta, quando e quanto far irrigare all’impianto idraulico), per arrivare a Mother, Cookie e Peanut di Sense che… beh, è mia madre: una rete di piccoli sensori da seminare per casa in modo che vi ricordino di chiudere la porta, di prendere le medicine, di mettere la maglia di lana, di non starnutire quando vi nascondete e di non ridere quando mentite.
Ma che dire a chi, come noi, in casa ci abita poco ma di case ne costruisce tante? La Internet of Things, checché ne dica Autodesk, sembra ancora avara di emozioni per l’industria delle costruzioni. Il caso del Consolidated Contractors Group è ancora un po’ troppo isolato perché si possa davvero parlare di una Internet of Things all’interno di realtà in cui nemmeno il digitale controllato dall’uomo è ancora sbarcato del tutto in cantiere. Da tenere sotto controllo sono aziende come MCube, produttrice dei Mems motion sensors (accelerometri, sensori magnetici e giroscopi).
E per chi desidera “sporcarsi le mani” con la Internet of Things, esiste The ThingBox project, un visual programming (sì, come Dynamo, dai) accessibile a tutti.
Questo è quanto: le mie impressioni (riportate) sul futuro prossimo della tecnologia. Invito chiunque abbia raccolto spunti interessanti, soprattutto relative al settore delle costruzioni, a contribuire alla raccolta. E speriamo che, entro l’anno prossimo, sempre più persone abbraccino lo slogan del CES: Innovation Betters the World.