La guerra è finita

Tre sono i ricordi più significativi che conservo di Andrea Piazzalunga. “Il Piazza”, come veniva affettuosamente chiamato in studio. Il primo: un viaggio di ritorno in auto dal cantiere di Saint-Vincent durante il quale ci siamo persi in chiacchiere, abbiamo mancato l’uscita del raccordo e ce ne siamo accorti solo alla barriera di Torino. “Questa […]

Tre sono i ricordi più significativi che conservo di Andrea Piazzalunga. “Il Piazza”, come veniva affettuosamente chiamato in studio.

Il primo: un viaggio di ritorno in auto dal cantiere di Saint-Vincent durante il quale ci siamo persi in chiacchiere, abbiamo mancato l’uscita del raccordo e ce ne siamo accorti solo alla barriera di Torino. “Questa non la raccontiamo a nessuno”, ci siamo detti. Perdonami, Andrea. Oggi l’ho raccontata.
Il secondo: quel viaggio in Maremma, ospiti di Piero, quando progettammo strutture impossibili da costruire nel giardino dietro casa sua e invece lui ci mandò tutti in spiaggia. Quella spiaggia in cui Andrea sfoggiò con noncuranza la sua tartaruga per poi dichiarare, il giorno dopo in studio, che l’aveva presa a noleggio.
Non ho foto di Andrea in quel periodo: un uomo serio e bellissimo, un architetto di quelli veri, in grado di progettare un particolare costruttivo e di gestire una pratica, che di sabato si trovava spesso in studio a seguire i propri lavori (pratica non solo consentita ma addirittura incoraggiata da Piero in quei tempi ormai lontani). Un collega da cui sapevo di poter andare sempre, per qualunque problema, e che era sempre disponibile a guidarmi con la sua esperienza.

Il terzo ricordo, purtroppo, è più recente.
Incontrato nel cortile fuori dallo studio, quell’iconico cortile laterale in Brera che ci ha visto spesso accavallare telefonate ai piedi della parete di rampicanti, avevo trovato un uomo il cui sguardo si era addolcito di quella struggente malinconia che traspare solo in chi sta combattendo contro il mostro della depressione. Una parola nei confronti della quale nutriamo profondo pudore.

Ma il pudore, tanto spesso dipinto come una virtù nella nostra borghese società lombarda, è un senso di avversione nei confronti di aspetti della nostra natura con i quali non abbiamo gli strumenti per fare i conti. E il silenzio è sbagliato. La concezione secondo la quale è bene non parlarne, perché parlarne rende concreta l’idea, è sbagliata. La rende concreta solo per chi ascolta, ma nel cuore di chi la esprime quell’idea esiste già e, una volta affiorata nella mente, non scompare grazie al silenzio. Anzi. È un mostro che cresce fino a ingoiarci completamente.

Io non so quanto Andrea riuscisse a trovare, in quello studio cui ha dedicato 23 anni della sua vita, comprensione e supporto durante una guerra che è stata lunga. E so bene che ora tutti noi dovremo fare i conti con lo straziante rimorso, con i sensi di colpa dei sopravvissuti, con il senso di co-responsabilità di fronte a quello che un collega ha definito “l’irreparabile”. Irreparabile, sì, ma non inimmaginabile. Non rifiutiamo niente di questa realtà. Non rifiutiamo la guerra di Andrea e non rifiutiamo quella che ora si apre con noi stessi nel cuore di tutti noi.
Ma soprattutto, se vogliamo che Andrea non sia morto invano, accettiamo nel nostro cuore che tante persone intorno a noi stanno combattendo guerre simili e facciamo tutto il possibile, se ne abbiamo i mezzi e la forza, per far sì che non siano soli.

Ciao, Andrea. La guerra è finita, per sempre è finita, almeno per te.

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