Novità dalla Cina

Un articolo dal Manifesto di ieri che leggo solo oggi insieme al pacco così di giornali e riviste arretrate. Temo che prima o poi qualcuno me lo regalerà e finirò con il leggerlo. Come era verde la prateria della Mongolia – Silvia Calamandrei Presentato con clamore in Italia come l’opera di un dissidente perseguitato dalla […]

Un articolo dal Manifesto di ieri che leggo solo oggi insieme al pacco così di giornali e riviste arretrate. Temo che prima o poi qualcuno me lo regalerà e finirò con il leggerlo.

Come era verde la prateria della MongoliaSilvia Calamandrei
Presentato con clamore in Italia come l’opera di un dissidente perseguitato dalla censura, quasi costretto a celarsi dietro lo pseudonimo di Jiang Rong, Il totem del lupo (Mondadori, traduzione di Maria Gottardi e Monica Morzenti, pp. 653, euro 19) è in verità un bestseller cinese del 2004 – un testo ampiamente dibattuto e trasmesso perfino via radio, che ora fa le sue prove sul mercato editoriale globale, dopo che la Penguin ne ha acquisito i diritti mondiali per centomila dollari e una percentuale sulle vendite:un risultato che l’agenzia di stampa governativa Nuova Cina ha salutato con soddisfazione, come un primo sforzo di colmare il deficit nel campo dei diritti d’autore librari, per i quali la Cina è stata finora grande importatrice. Se il cinema cinese si è ormai assicurato il suo spazio nei numeri delle classifiche, ora è la volta della sfida di una mediocre opera letteraria, pesantemente infarcita di considerazioni filosofico-ideologiche (premesse a ogni capitolo ma spesso anche in bocca ai giovani protagonisti), che deve molto a Jack Londone a Darwin filtrato dalla visione storica di Herbert George Wells, tutti autori tradotti già nella Cina maoista, data la loro appartenenza al filone socialista. Strategie dietro la Grande Muraglia. In Cina l’opera è stata lanciata come romanzo filosofico e  antropologico, un messaggio di sfida alla tradizionale passività cinese che contrappone le pecore contadine della etnia Han, sottomesse al totem del Drago, allo spirito eroico e aggressivo dei cavalieri di Gengis Khan, ispirati dalla figura simbolica del lupo. Ancora una volta, come ai tempi dell’Elegia del fiume, la serie televisiva trasmessa nel 1988 e considerata una delle premesse culturali della rivolta di Tienanmen, un autore cinese invita a scuotersi dall’arroccamento dietro la Grande Muraglia e dalla tradizione autoritaria, per occidentalizzarsi e meglio competere su scala mondiale. E il romanzo è andato a ruba tra i giovani manager cinesi, tanto da generare una serie di imitazioni manualistiche sulla «strategia del lupo», utile per meglio farsi valere sui mercati del pianeta. Le centinaia di migliaia di copie vendute sono però attribuibili soprattutto allo stile popolare della narrazione e al fascino esotico – anche per i cinesi – delle descrizioni della vita nella prateria della Mongolia interna, regione del nord-ovest della Cina, una sorta di Far West in cui il protagonista e i suoi giovani compagni, studenti di Pechino, si trasferiscono nel 1967, per restarvi nel decennio della Rivoluzione culturale. Una saga della steppa di quarant’anni fa, quando i pascoli erano ancora verdi e l’equilibrio ecologico tra le varie specie animali e vegetali era preservato grazie alla scarsa densità della presenza dei pastori nomadi, in coesistenza e al tempo stesso in lotta con i lupi. E questi aspetti, che inseriscono il libro nel filone di una letteratura ecologista un po’ misticheggiante, possono essere ragioni di successo del libro anche in Occidente. In realtà, l’autore non fa che narrare nostalgicamente le memorie della sua gioventù di pechinese trasferito a contatto con la natura selvaggia, evocando la lezione appresa dai vecchi pastori che si opponevano invano alla trasformazione dei pascoli in terreni da dissodare per l’agricoltura e l’allevamento intensivo, e alla desertificazione che ne sarebbe inevitabilmente derivata. In questo senso il romanzo si apparenta alla «ricerca delle radici» che ha pervaso tanta letteratura cinese della generazione della rivoluzione culturale: i «giovani istruiti», dispersi nella Cina profonda, come le talpe ne scavano la memoria atavica e portano alla luce identità sepolte sotto la superficie del foglio bianco su cui Mao voleva iscrivere il suo progetto rivoluzionario. Sotto lo pseudonimo di Jiang Rong, come ha rivelato Fabio Cavalera in una corrispondenza da Pechino sulla «Stampa», si cela in effetti il sessantenne Lu Jiamin che, incarcerato per alcuni anni dopo la primavera di Pechino del 1989, aveva trascorso in gioventù più di dieci anni, dal ’67 al ’79, nella Mongolia interna. Lu Jiamin dunque non appartiene ai «ribelli», ma alla prima ondata di trasferimenti dei «giovani istruiti» nella quale erano stati coinvolti soprattutto i figli dei comunisti che «avevano imboccato la via del capitalismo» e dei professori, vittime delle Guardie Rosse. Il suo alter ego, il protagonista Chen Zhen, deplora gli eccessi delle Guardie Rosse e la lotta «contro i quattro vecchiumi» che distrugge le tradizioni. Nell’altipiano mongolo il giovane scopre le virtù dei «barbari che avevano terrorizzato mezzo mondo» e impara che le stragi degli erbivori (gazzelle, cavalli, marmotte, roditori) perpetrate dai lupi garantiscono la vita della prateria, tanto da scontrarsi con un ex leader di una fazione delle Guardie Rosse che vorrebbe organizzare le masse contro i lupi. Chen Zhen è contrario alla «sinizzazione» promossa dal governo, che trasferisce contadini cinesi a dissodare e coltivare la terra, e cerca invece di identificarsi con i pastori mongoli fino a tentare l’impresa di allevare un lupacchiotto per meglio apprendere lo spirito dei lupi. Le parti descrittive, in cui l’autore nutre la sua memoria diretta con studi di etologia e ecologia coltivati nei decenni successivi, sono vivaci e estremamente precise nel proporre ai lettori particolari di volta in volta curiosi (come la composizione dello sterco di lupo) o anche assai cruenti. In guerra contro le pecore cinesi. Pesanti e al limite del grottesco, se non decisamente reazionarie, sono invece le considerazioni che il protagonista continuamente elabora sulla «spietata lotta per la vita che governa il mondo»: la lezione è che «un popolo, se non vuole essere schiacciato dai suoi simili, deve possedere un coraggio e un temperamento da predatore», mentre i cinesi Han vengono stigmatizzati come un gregge di pecore «privo di spina dorsale». E ancora, dopo avere descritto la «guerra all’ultimo sangue tra milioni di spermatozoi che si uccidono gli uni dopo gli altri, disseminando l’utero di cadaveri», l’autore giunge alla conclusione che «la vita nasce dalla guerra ed è la guerra il senso del nostro destino » e che «le grandi civiltà agricole della storia sono state distrutte perché si illudevano di prosperare in una pace arcadica, separate dalle contese del mondo», mentre le altre civiltà progredivano e si espandevano. Secondo Jiang Rong, infine, le «grandi potenze mondiali odierne discendono dalle antiche etnie di nomadi, di navigatori, di commercianti», che hanno una «forza vitale superiore a quella delle popolazioni contadine dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India». Insomma, una cattiva rimasticatura di darwinismo inizio secolo, cui si affianca una vena di romanticismo nostalgico coltivato dall’amico del protagonista, YangKe, appassionato estimatore del Lago dei cigni di Cajkovskij nella versione ballata da Galina Ulanova, proibita da Jiang Qing per far posto al Distaccamento femminile rosso. Inutili sono però tutti gli sforzi del giovane per opporsi alla caccia ai cigni scatenata dai cinesi immigrati e dai militari dell’Esercito, golosi della loro carne. Contro questa «furia distruttiva» Yang Ke non riesce a trovare nessuna citazione del Libretto rosso, neppure uno scritto o un discorso di Mao «che condannasse la caccia agli uccelli rari», così che ha buon gioco il delegato dell’esercito a rinfacciargli che «i cigni sono notoriamente la passione dei revisionisti sovietici» e a minacciare di criticarlo come «elemento di destra» per la sua difesa degli animali a rischio di estinzione. Convinto che «una terra di contadini reclama un imperatore, non si batte per la repubblica», mentre il lupo sarebbe simbolo di libertà e democrazia, ChenZhen è il portavoce di una filosofia dichiaratamente anticonfuciana e anticontadina. E forse il successo del libro nella Cina urbana attesta una identità più marcata e aggressiva delle nuovi classi medie, che vogliono ispirarsi all’homo homini lupus liquidando le vestigia del mito egualitario contadino. È sicuro comunque che l’infarcitura ideologica mal si adatta al lettore occidentale, che ne farebbe volentieri a meno e potrebbe anche inquietarsi di fronte all’aggressività di questo mito invocato per farsi largo a livello mondiale. C’è da chiedersi se l’editing fatto dalla Mondadori, anziché sostituire «giovani intellettuali» a «giovani istruiti», non avrebbe potuto spingersi oltre.


PS: sì, lo so, il quadro di Monet raffigura Camille in abiti giapponesi e non cinesi. Ma mi piace molto.

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