BIM.InteriorDesign – Introduzione

Buongiorno a tutti e grazie. Grazie se avete partecipato alla lezione del 9 marzo, grazie se avete partecipato alla replica di mercoledì 11, grazie se avreste voluto partecipare ma non ci siete riusciti, grazie se non avete partecipato ma ci avete sostenuto. Grazie. È stato importante vedervi, per noi che stiamo continuando nella nostra battaglia di raggiungervi con […]

Buongiorno a tutti e grazie. Grazie se avete partecipato alla lezione del 9 marzo, grazie se avete partecipato alla replica di mercoledì 11, grazie se avreste voluto partecipare ma non ci siete riusciti, grazie se non avete partecipato ma ci avete sostenuto. Grazie. È stato importante vedervi, per noi che stiamo continuando nella nostra battaglia di raggiungervi con contenuti di qualità, e spero che anche per voi sia stato piacevole passare due ore in mia compagnia. Spero che sia stato utile. Possiamo uscire da questo momento difficile solo se cogliamo ogni occasione per sviluppare nuovi modelli di business, per accrescere le nostre competenze, per acquisire nuova capacità di risolvere i problemi e di pensare lateralmente. E se teniamo la testa sulle spalle.

Ma la peste non fu solo un male di per sé,
non seminò solo sofferenze e morte:
scompigliò la vita mentale della gente
avviandola verso le credenze più folli,
verso l’irrazionalità.
(A. Manzoni, I Promessi Sposi)


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La mia chiacchierata ha assunto i connotati di lezioni introduttive al BIM che alcuni di voi mi possono aver già sentito tenere, ma con uno specifico twist relativo al BIM per l’Interior Design. Abbiamo parlato quindi di modellazione informativa a partire dalle visioni di Douglas Engelbart, è vero, ma hanno trovato pesantemente parte anche Licklider e Taylor che con il loro The Computer as a Communication Device mi stanno recentemente aiutando a spostare il focus dal BIM come produzione di un database di progetto al BIM come strumento di comunicazione tra le parti.

Ho avuto anche modo di riprendere un altro concetto fondamentale, ovvero l’importanza del modello e la sua storica centralità, nell’espressione del progetto.

The word “model,” too, is an architectural term: it initially referred to plans for building (the French modèle or Italian modello became the English “model” during the seventeenth century), derived from the Latin for modulus—an architectural term for “to measure.” Models serve as the measure of an idea, the working through an image in one’s mind, into a drawing, and into three dimensions. These conceptual notions of architecture are not a recent concept.
– Molly Wright Steenson, Architectural Intelligence: How Designers and Architects Created the Digital Landscape (MIT Press, 2017)

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Se il modello è quindi uno strumento espressivo consueto, per i progettisti, è necessario sempre ripartire da un discorso relativo all’altro strumento tradizionale di espressione, ovvero il disegno in ipotetica opposizione rispetto alla modellazione.

Il disegno tradizionale è un processo additivo, in cui la complessità viene conseguita tramite l’aggiunta e la sovrapposizione di segno indipendenti tracciati su carta. Non consente di gestire alcuna relazione associativa. La coerenza interna di un disegno non è garantita dal mezzo di produzione (medium), ma viene affidata al designer. Ne consegue che il disegno non è un medium intelligente, ma piuttosto è un codice basato su standard e convenzioni.
– Arturo Tedeschi, ADD – Algorithms-Aided Design

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Il processo di creazione delle relazioni associative all’interno di un disegno tradizionale si basa sull’espressione attraverso linguaggio simbolico e va tutto molto bene finché il linguaggio simbolico rimane condiviso. Ma quando questa condivisione viene meno (si veda ad esempio la freccia di una scala… paese che vai, usanza che trovi), ecco che l’utilizzo di modello, virtuale o reale, interviene a sgombrare il campo dai possibili dubbi e dai fraintendimenti. Perché il disegno è uno strumento con cui è possibile tessere meravigliose ambiguità (ho avuto l’occasione di citare ancora una volta le ambientazioni Escheriane di Monument Valley), ma è davvero quello che vogliamo, mentre lo utilizziamo come strumento per fugare ogni ambiguità relativa a un progetto?

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Ipotizzando quindi di dover scrivere un “Veramente nuovo manuale dell’Architetto”, un architetto BIM, i capitoli sono sempre gli stessi:

  1. Progettazione parametrica;
  2. Modellazione informativa;
  3. Lavoro collaborativo.

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1. Progettazione Parametrica

Da Luigi Moretti a Paperino nel mondo della matemagica, i parametri sono ciò che l’uomo ha ideato per descrivere la realtà in cui viviamo. Questi parametri si traducono nella codifica di quelle scelte progettuali che guidano la flessibilità (o l’assenza della suddetta) per gli oggetti che popolano e vanno a costituire i nostri modelli: il fusto delle sedie e dei tavoli di Saarinen nella famiglia Tulip, ma anche il fusto e il diametro delle colonne di Vitruvio. La parametrizzazione però deve essere codificata con un criterio, a meno che non si voglia ricadere in esercizi di stile, per quanto splendidi, come quelli di Paul Aubin nel suo Renaissance Revit.

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Il criterio viene spesso erroneamente indicato come un criterio esclusivamente geometrico. Per citare Daniel Davis nel suo recente articolo Generative Design is Doomed to Fail, è facile essere portati a ottimizzare i progetti sulla base di ciò che è misurabile, anziché sulla base di ciò che è importante. Un criterio tipico sulla base del quale è necessario ottimizzare gli oggetti, ad esempio, è la tecnica di fabbricazione. Ci si trova a dover scegliere quindi tra diversi criteri, che Daniel Nagy nella sua introduzione al Computational Design, sistematizza in quattro strategie:

  1. variabile continua;
  2. a variabile discreta;
  3. ricorsiva;
  4. comportamentale.

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La strategia a variabile continua ad esempio è conveniente in caso di produzioni con macchine a controllo numerico o laddove ci si trovi effettivamente in presenza di tecniche di produzione che consentano la personalizzazione di massa, mentre la strategia a variabile discreta è più frequente, da utilizzarsi quando le personalizzazioni si muovono comunque all’interno dei margini delle variazioni a catalogo.

Recursive strategies use recursive functions to describe complex formal structure based on a set of parameterized rules. For example, you might have a single set of inputs that define a set of rules for placing windows in the tower, and the individual windows are then placed according to those rules and their individual locations in the building. This allows you to maintain control of all the windows, while minimizing and abstracting the input parameters required. This technique can define highly complex geometries such as fractal systems from a very small set of starting parameters, and is very common in the geometries of nature.
– Daniel Nagy, Introduction to Computational Design

Circa le strategie comportamentali, importantissime per la progettazione d’interni, si veda il capitolo 3 di questo nostro manuale virtuale dell’architetto (o dell’architetto digitale?).

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Un ragionamento simile può essere trasportato dagli oggetti agli spazi, il cui taglio e dimensionamento costituisce il cuore pulsante di un progetto d’interni.

Ciò fu per gli antichi chiarissimo e per secoli: dai romani ai romanici, dai gotici al Brunelleschi, da Bramante al Guarini, la conquista e risoluzione degli spazi interni coincise con la conquista e la storia stessa dell’architettura.
– Luigi Moretti, Spazio nr. 7

In quello stesso numero della rivista, Moretti analizza una serie di progetti che hanno fatto la storia dell’architettura, dalla Villa Adriana a Tivoli al Palazzo Ducale di Urbino, confronta le relazioni di compenetrazione parametrica degli spazi tra la chiesa di S.Filippo Neri in Casale Monferrato (Guarino Guarini, progetto del 1679, mai realizzata) e Casa McCord di Frank Lyod Wright, scompone la sequenza di spazi nella Rotonda e di Palazzo Thiene, entrambi del Palladio, per arrivare a Palazzo Farnese e alla Basilica di San Pietro.

Ogni spazio, secondo Moretti, è riconducibile a specifiche primitive geometriche e ogni sequenza si basa su relazioni parametriche.

Lo stesso tipo di operazione sugli spazi può essere portata avanti, sempre con l’attenzione di ottimizzare ciò che è importante e non semplicemente ciò che è facile da misurare, adottando un approccio esigenziale-prestazionale, in opposizione a un approccio descrittivo.

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Fonte dell’immagine: Teknoring (a sua volta da IRCC 2010 e Meacham, 1999)

Per farlo, abbiamo bisogno di guardare maggiore attenzione all’interno degli edifici: per citare i riferimenti che utilizza George Perec nel suo Specie di Spazi (ne ho parlato qui), abbiamo bisogno di scoperchiare gli edifici come nel Maboroshi no Genji monogatari emaki o di sradicarne le facciate come l’hotel meublé di Saül Steinberg in The Art of Living (Londra, Hamish Hamilton 1952).

Si può facilmente immaginare un appartamento la cui disposizione si fonderebbe, non più sulle attività quotidiane, ma su funzioni di relazioni.
– George Perec, Speci di Spazi

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Solo recuperando le funzioni degli ambienti, sulla base del loro utilizzo reale e sulla base ad esempio della sequenza nittimerale (scansione tra giorno e notte) delle attività che vi si svolgono, è possibile codificare in un modello informativo, ad esempio, le informazioni necessarie per rispettare una matrice funzionale. E’ l’architettura senza edifici di Bruno Zevi, la codifica informativa di principi sociologici e comportamentali.

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Per farlo, però, abbiamo necessità di allargare gli orizzonti dal reale del parametrico ed entrare in quello dell’informativo.


 

2. Modellazione Informativa

Il ponte tra la progettazione parametrica e la modellazione informativa, almeno nel nostro discorso, è il lavoro di Christopher Alexander, che nel suo A Pattern Language codifica i principi geometrici e funzionali degli spazi nel tentativo di creare un manuale di architettura open source. Ne ho già parlato qui.
Il suo pattern 131 ad esempio, “The Flow Through Rooms”, si occupa di verificare le relazioni tra gli spazi consigliando di creare quello che viene chiamato “a generous circulation loop”, perché le relazioni personali più interessanti avvengono negli ambienti di passaggio.

The following incident shows how important freedom of movement is to the life of a building. An industrial company in Lausanne had the following experience. They installed TV-phone intercoms between all offices to improve communication. A few months later, the firm was going down the drain – amd they called in a management consultant. He finally traced their problems back to the TV-phones. People were calling each other on the TV-phone to ask specific questions – but as a result, people never talked in the halls and passages any more – no more “Hey, how are you, say, by the day, what do you think of this idea…” The organization was falling apart, because the informal talk – the glue which held the organization together – had been destroyed. The consultant advised them to junk the TV-phones – and they lived happily ever after.
– Christopher Alexander, A Pattern Language (Pattern #131, The Flow Through Rooms)

La strutturazione delle informazioni per integrare questo approccio con quello di Perec, e mettere a sistema anche la funzione degli spazi per arrivare alla sua geometria, passa necessariamente per la creazione di un’architettura di informazioni che, curiosamente, è un concetto creato proprio dagli architetti. Richard Saul Wurman è una delle figure più importanti, in questo senso. Oltre ad aver lavorato con Louis Kahn e con Esri, è autore di iniziative minori come, ad esempio, i TED talks e ha scritto numerosi libri sull’architettura delle informazioni e sulla progettazione di una struttura informativa, tra cui Information Architects (1996) de UnderstandingUnderstanding (2017), anche se a mio parere una delle sue opere più importanti – e lo sarà ancora di più nel nostro percorso di urbanistica – è Information Anxiety 2, del 2001, tradotto in Italia come Angustia Informativa.

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La creazione dell’architettura informativa di un progetto, oggi, passa certamente per una via più agevole rispetto alle prime sperimentazioni: si veda ad esempio il Generator di Cedric Price, per il quale John e Julia Frazer dovettero sviluppare un calcolatore ad hoc, o il suo Fun Palace. Come sapete amo molto il suo lavoro e credo non venga insegnato abbastanza, insieme all’opera degli altri progettisti che hanno aperto la strada per gli strumenti che utilizziamo oggi.

Ciò che in questa sede è importante non dimenticare, come ci ricorda Stanislas Chaillou nel suo splendido articolo The Advent of Architectural AI, ogni innovazione nasce da una necessità e le innovazioni tecnologiche relative alla progettazione, all’ingegnerizzazione e all’ottimizzazione di processo nel settore delle costruzioni non fanno eccezione: il CAD nasce dalla progettazione modulare di Gropius e Le Corbusier, così come Revit e Grasshopper nascono dai desideri del parametricismo: tra queste tendenze si pone il Computational Design, stimolato dall’opera di Nicholas Negroponte, dell’Architecture Machine Group e di Christopher Alexander.

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Infografica di Stanislas Chaillou, schizzi di Le Corbusier, Cedric Price e Frank Gehry

Le necessità che abbiamo oggi e sulla base delle quali dobbiamo operare sono forse mutate: il bisogno di ecosostenibilità, che è ormai una scelta di sopravvivenza, di porta a dover integrare i processi di modellazione informativa con i workflow di progettazione per il LEED, mentre fatichiamo a rapportarci con i flussi di dati che ci circondano e ad integrarli in progetti che siano davvero SMART. Ma inutile negare che il bisogno di relazioni umane rimanga al centro, soprattutto in un momento in cui ci sembra che il mondo non possa più tornare a essere quello di un tempo.

Ragionamenti analoghi possono e devono essere fatti in relazione agli oggetti di un modello informativo.

Q: Quali sono le informazioni che è opportuno inserire in un modello?
A: dipende.

Dipende da molti fattori, ma il primo che è opportuno considerare è il target: a chi sono destinate le informazioni?
Presentarsi da un cliente non tecnico con delle piante non è mai stata, storicamente, una buona idea.

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Ho adorato lo show I Pilastri della Terra, dal romanzo di Ken Follet, soprattutto per l’attenzione posta al processo di concepimento dell’edificio, che passava per l’uso di modelli.

Ma anche nella realizzazione di un modello, tutti i modelli sono uguali ma alcuni modelli sono più uguali degli altri. Prendendo tre esempi di un modellino fisico, è ben diverso realizzare, ad esempio:

  • il mock-up di una soluzione strutturale,
  • la rappresentazione realistica di una porzione di progetto finito o
  • un modello che assolva ad entrambe le funzioni.

E sbagliare nella realizzazione ha effetti gravissimi, sia in termini di efficacia che in termini economici.

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Studiare i processi di realizzazione dei modelli fisici ci aiuta, quindi, a comprendere l’importanza di approcciare con cautela quelli digitali: oltre ai modelli della cupola di Brunelleschi, confrontati con quelli che si dice realizzasse in cantiere intagliando le zucche per spiegare le soluzioni tecniche ai costruttori, mi piace citare le catenarie di Gaudì e le tensostrutture di Otto Frei. Per l’occasione ho inserito nel discorso anche modellini fisici per un progetto d’interni, in particolare i modelli che il Laboratorio Morseletto ha realizzato per David Chipperfield in occasione della mostra di Casabella Chipperfield Veste Valentino. Si tratta di modelli che sono realizzati chiaramente con uno scopo preciso: quello di valorizzare l’uso dei materiali all’interno dei progetti. Avevo avuto modo di parlarne già all’epoca, in una delle mie cronache dal Salone del Mobile.

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Confrontiamo questi modelli con altri modelli, ad esempio quelli delle vetrine di Rinascente che si potevano vedere nella bellissima mostra per i suoi 100 anni (ne avevo parlato qui).

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E’ evidente che obiettivi diversi risultano in modelli diversi, spesso incompatibili tra loco.
Nei processi digitali, il processo è il medesimo. Questi obiettivi vengono chiamati usi del modello, per i quali vi rimando ad una serie di miei vecchie lezioni (in cui trovate abbondante bibliografia esterna al blog):

Applicando il concetto direttamente agli elementi di un modello informativo, siamo passati di nuovo per Christopher Alexander e in particolare per altri due dei suoi pattern, che lavorano congiuntamente: il Pattern #127, “Intimacy Gradient”, e il Pattern #142, “Sequence of Sitting Spaces”. La teoria è che ogni sequenza di interni si snodi attraverso un gradiente di intimità che va dagli spazi pubblici del fonte a quelli privati che si raggiungono solo attraversando l’intero spazio, o da un ingresso privilegiato.

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A questo gradiente di intimità, corrisponde la necessità di costellare gli spazi con ambienti di sedute che rispettino questo grado di intimità. Ecco quindi che è possibile codificare all’interno degli oggetti, ad esempio:

  • la quantità di persone che ogni sistema può ospitare;
  • il grado di intimità che queste persone devono possedere tra di loro per fruire del sistema di sedute;
  • il grado di permeabilità del sistema rispetto all’esterno.

Sistemi di sedute nella sala di attesa di un dentista, ad esempio, hanno probabilmente necessità di un basso grado di intimità e di un alto grado di permeabilità.

Mettendo a sistema quindi la componente parametrica e quella informativa di un modello, e facendolo con un alto grado di consapevolezza progettuale, è possibile raccogliere i benefici di una progettazione BIM anche in un campo di applicazione apparentemente insolito come il design degli interni. Ma manca ancora qualcosa.


 

3. Lavoro Collaborativo

Per riprendere nuovamente il pensiero di Licklider e Taylor, che mi hanno dato una mano ad avviare il discorso, il processo di collaborazione è costituito da un dialogo interattivo. Il sovraccarico di informazioni, tuttavia, non può che risultare nella distruzione di ogni possibilità di comunicazione. Come si suol dire, Too Much Information = No Information.

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Per questo è necessario un approccio strutturato e sensibile, oltre che sensato, alla modellazione informativa. E strumenti come il BIM Execution Plan sono fondamentali per la gestione corretta del processo se si mantengono documenti vivi, partecipativi, collaborati.

Esiste però un altro livello di collaborazione che è quello, oltre che sul processo di progettazione, sul contenuto stesso del progetto. Si parla di progettazione partecipativa quando è il cliente, inteso come utente finale, ad essere coinvolto nei processi. In questo senso viene risulta fondamentale la quarta strategia proposta da Daniel Nagy: la modellazione comportamentale, sia attraverso strumenti di simulazione già a disposizione come Mass Motion di Oasys, ma soprattutto attraverso un ulteriore sforzo attraverso Game Engine come Unity. Ma questa è un’altra storia, e dovrà necessariamente essere affrontata in un altro momento.


 

Qui sotto trovate il video della seconda lezione.

In questa cartella potete trovate materiale di approfondimento.

Avete a disposizione anche le slide, da sfogliare in autonomia, e per comodità le incorporo qui sotto.

 

3 Comments

  1. É stato un corso istruttivo ed è stato piacevole passare due ore in compagnia di Chiara, mai noiosa ed in grado di far nascere spunti riflessivi e di ispirazione.

    E questo articolo, con così tanto materiale a disposizione, è la ciliegina sulla torta!

    Grazie!

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