Habibi

Come ci insegna Wikipedia, habibi (حَبيبي) è un termine arabo che significa “amato”, al maschile, laddove al femminile sarebbe habibti o habibati. È un sostantivato dell’aggettivo habib, con lo stesso significato, ed è anche utilizzato per indicare vari gradi di relazioni affettive non formali e non di sangue (tipicamente un amico molto stretto). Craig Thompson, […]

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Come ci insegna Wikipedia,
habibi (حَبيبي) è un termine arabo che significa “amato”,
al maschile,
laddove al femminile sarebbe habibti o habibati.
È un sostantivato dell’aggettivo habib,
con lo stesso significato,
ed è anche utilizzato per indicare vari gradi di relazioni affettive
non formali
e non di sangue
(tipicamente un amico molto stretto).

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Craig Thompson, autore di questa graphic novel, già si era distinto per l’approccio impegnato in Blankets, una graphic novel semi-autobiografica sulle contraddizioni della religione cristiana, la necessità di una crescita personale verso un credo autonomo e non preconcetto, e le difficoltà di abbracciare uno stile di vita maggiormente liberale in un ambiente ortodosso-tradizionalista. Insomma, quello che mi verrebbe da definire un insostenibile polpettone moral-religioso, un moderno pilgrim’s progress che, seriamente, non fa per me. Habibi invece, giustamente acclamato dal pubblico e dalla critica come l’opera grafica dell’anno, da questo punto di vista è una sorpresa. Forse per lo spirito differente da cui parte: meno didattico e auto-compiangente, un autore molto più riverente e curioso di quello incontrato in Blankets si approccia in punta di piedi alla cultura araba con lo sguardo rapito di un viaggiatore del 1800 («and maybe there’s a desire to humanize Islamic culture, instead of it always being vilified»).

Così ne parlava agli inizi del processo creativo:

«The working title for the new book is Habibi, and it’s a sort of an Arabian folktale of my own making. Not that I have… not that I’m justified in telling such a story; it’ll definitely be filtered through my isolated Western sensibilities. But that’s the stuff I’m reading now, a lot of Islamic art, culture, the original Arabian Nights, the Burton translation. I’m going to go on a trip to Morocco in about a month. I’m just sort of drawing on all these fun, fantastical, exotic elements of Islamic culture.»

(da un’intervista del 2004 su Bookslut)

Così è rimasto al termine di quel percorso. Un’opera complessa, con piani temporali intrecciati e mescolati a tenere alta l’attenzione, una storia di destini divisi narrata in un contesto esotico il cui fascino zampilla dalla mente dell’autore fino a riversarsi sulle tavole in una sorta di nuovo romanzo esotico.
E in questo racconto sono mescolati tutti gli elementi di quel genere: il volume, un vero e proprio tomo con copertina rigida edito in Italia da RCSlibri, è un’antologia di poesia e religione, con le sue pagine di Corano accuratamente scelte tra le storie che la religione islamica ha in comune con quella ebraica e cristiana, un compendio di botanica con le due intere pagine dense di erbe aromatiche e ricette per infusi magici, le complesse tavole di calligrafia in cui il tratto si fa simbolo per farsi figura e poi tornare a farsi parola, le grandi tavole illustrate e dense di citazioni pittoriche: la protagonista che mangia il melograno, che ricalca esattamente la Proserpina di Rossetti, o che distesa riprende temi e tinte Gauguinesche dello Spirito dei Morti, o le tavole del Corano che a tratti si tessono di tratti calligrafici ed a tratti divengono dipinti (come Mosè salvato dalle acque di Edwin Long). È solo naturale, quindi, anche se un po’ ottuso, che appartenenti a questa cultura possano trovare moralmente imperativo detestare quest’opera. È il caso di Fatemeh Fakhraie, che in una recensione su racialicious.com centra indubbiamente il punto ma fallisce nel comprendere lo spirito dell’opera, quando afferma:

«It’s simply an Orientalist reimaging of a modern Arabia—Thompson needs modern machinery to further his conservationist theme, but he still wants his pre-modern harems full of odalisques with no cell phones and his pre-modern camel caravans crossing a desert that his very same construction companies would build roads through.»

L’orientalismo in fondo, e parlo dell’orientalismo vero, quello originario, quello di Gericault e Delacoix, è davvero una forma di razzismo, ma è un razzismo ingenuo, quello che con gli occhi di un bambino guarda il diverso e lo trova meraviglioso. Lo guarda e non lo vede, magari, su questo possiamo essere d’accordo: ne idealizza alcuni aspetti, ne tralascia altri, ma possiamo veramente considerare Habibi l’opera idealizzata di un autore che approccia superficialmente la cultura islamica? No. E scommetto che se l’opera fosse ambientata in Cina, o nel Borneo Meridionale, non saremmo nemmeno qui a parlarne. È così strano che elementi di fascino orientaleggiante vengano mescolati ad elementi moderni ed, effettivamente steampunk? Che differenza fa se la protagonista lascia la capanna del padre a bordo di una motocicletta ma venga poi rapita da una carovana di cammellieri? Ogni elemento, decontestualizzato, ha un significato narrativo, ancora prima che culturale, e non c’è nulla di sbagliato nell’approcciare una cultura altrui con curiosità e occhio ingenuo e lasciarsene stregare, non c’è nulla di offensivo nel contaminarla con elementi di culture differenti (prima fra tutte la propria).

«It all started with A Thousand and One Nights, the Richard Burton translation, so that’s a very Westernized view of the folklore. And that set me off in two trajectories: one, which was to study the Islamic and Arabic art. And the other, the Western interpretations of that part of the world. The late 19th-century French Orientalist paintings are very exploitative and sensationalistic. They’re sexist and racist and all of those things, and yet there’s a beauty to them and a charm. So, I was self-consciously proceeding with an embrace of Orientalism, the Western perception of the East.»

(l’autore nella sua celebre e citatissima intervista su GuernicaMag)

E, credetemi, non c’è nulla di offensivo in questa storia di destini intrecciati, non c’è nulla di offensivo nelle rappresentazioni di nudità che tanto offendono Fatemeh Fakhraie, a che se in questo caso, forse, la barriera culturale c’è ma non dal lato dell’accusato: la nudità della protagonista, tratteggiata con una linea tanto delicata e fanciullesca, riesce a trascendere i contorni dell’erotismo, a scomparire, e ben lungi dall’essere una protagonista di Manara, non rimane mai nuda a seguito di grottesche e pretestuose disavvenure, ma diventa agli occhi del lettore una figura quasi adamitica, la cui nudità precedente al peccato originale è motivo di vergogna da ricercarsi esclusivamente nell’occhio di chi guarda. Il suo corpo è tema centrale, non ornamento, e l’autore riesce a rendere con straordinaria delicatezza alcuni tratti tipicamente femminili nel rapporto tra la donna e il proprio corpo, avvicinandolesi con lo stesso sguardo incantato che riserva al mondo arabo: la sua gravidanza, l’estraneità cronica ad un corpo che le è estraneo quando quando lo usa come strumento, rendendosi prostituta per i carovanieri di passaggio. Un corpo che cresce insieme al suo habibi, scandito dai ritmi dei suoi racconti, e che in poche semplici pagine ci accompagna lungo nove anni d’infanzia insieme, e di perdita dell’innocenza.

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Ha un preciso ruolo narrativo persino l’overdose di sesso nella parte centrale, che ad una prima lettura potrebbe quasi sembrare uno scivolone nella volgarizzazione delle Mille e una notte non molto diverso da quello in cui cadde Richard Burton nella sua prima traduzione integrale dell’opera (in fondo è lo stesso inglese che, se da una parte dobbiamo ringraziare per averci portato numerose opere inedite in Europa, dall’altra ha forgiato anche l’idea attuale che il Kamasutra comprenda solo un vademecum per contorsionisti). La successione di amplessi tra la bella protagonista e il lascivo crudele sultano, dicevo, fa da perfetto contrappunto, nella trasformazione di Dodola da strega del deserto a concubina favorita, al percorso spirituale di Zam, la sua scelta di purificazione ed espiazione, che in passato avevo vista trattare con altrettanta sublime e cruda selicatezza solo da J.T. Leroy nel suo The Heart is Deceitful above All Things (leggetevelo, e se avete caro ciò che il protagonista si fa amputare evitate il film di e con Asia Argento, che vede tra le altre cose niente di meno che Ornella Muti nel ruolo della nonna, giusto per non farsi mancare nulla). Ma quella che in J.T. Leroy era psicologia sociale, qui assume i toni delicati di uno strazio interiore, per il ragazzo cresciuto solo in una nave arenata nel mezzo del deserto, e si lega agli eccessi sessuali di Dodola solo ad un livello metafisico, come se il sacrificio dell’uno fosse anche per la redenzione dell’altro (un tema che, nel gioco di destini incrociati che è Habibi, ricorre): incidentalmente, quasi un pretesto per immergerci nuovamente nella visione come era stato l’uso d’oppio da parte di lei, ci viene dischiuso in punta di piedi e con squisita, sussurrata delucatezza, un altro lato della cultura islamica (lato che condivide a stretto giro con quella ebraica). La ritualità dell’operazione, nelle sue fasi, non è forse, come molte norme religiose mediorientali, una commistione indissolubile tra cura del corpo e cura dello spirito? Immersione nella sabbia, per entrare in comunione con la terra (ed asciugare le ferite fresche), impedire all’eunuco in delirio di toccarsi. Digiuno rigido, cinque giorni senza cibo e acqua, per portare il corpo all’estremo delle sue possibilità e ricevere la visione spirituale che visita anche Zam, ma come altro costringere il riposo della parte operata se non tramite una dieta straziante? Dieta successiva a base di latte caldo, quasi un ritorno all’infanzia. Tutto ciò non è affatto diverso da altre imposizioni religiose come il ramadan o il veto nei confronti del maiale, o la ritualità delle abluzioni prima dei pasti (questa commistione igienico-religiosa è quasi assente nella cultura cristiana ma in fondo come potrebbe? Si è sviluppata in seno alla cultura romana, che tutto aveva tranne deficit culturali di igiene). La cosa veramente straordinaria, è che le pratiche descritte sono, a meno che non mi sbagli di grosso, un’invenzione dell’autore per mostrarci tutto questo. La religione islamica non giustifica l’auto-castrazione (al contrario, sorpresa sorpresa, di quella cristiana) e gli eunuchi mostrati nel racconto sono più simili a sacerdoti di Cibele di quanto non trovino posto tra gli eunuchi dell’harem, che pure vengono mostrati ma il cui ruolo narrativo preferisce concentrarsi sul razzismo, una contrapposizione quasi haitiana tra servo e padrone. Alla zona grigia degli eunuchi nel palazzo, quelli “troppo belli” perché possano servire le donne dell’harem, è affidato l’arco narrativo della terza trasformazione di Zam, da Cameera a “ciccione” senza voce e senza nome, da cui infine risorge, attraverso il fiume e intrecciandosi con la stregoneria dell’acqua di Safayi, ridonando a entrambi il proprio vero nome e ricongiungendo la coppia perduta. La discesa nel fiume è una milestone, a due terzi di volume, uno spartiacque tra l’intreccio dei piani narrativi che non si mescolano mai varcando questo confine.

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Dal ricongiungimento in poi, la narrazione scorre più lineare, intervallata solo dai racconti biblici, e per la prima volta i due protagonisti vengono affiancati da un comprimario degno di questo nome: come non adorare Nunu, il pescatore “wudu” d’immondizia e il suo macchinario di depurazione dell’acqua alla doc Brown, con il suo ottimismo (quasi) crudele e la sua (quasi) folle spinta inguaribilmente positiva? Riempie le pagine, rubando la scena, e fa da contraltare allo spirito fiabesco della prima sezione, riportandoci prepotentemente in un mondo sporco e inquinato, in cui la bella Dodola consuma il proprio corpo e risorge, riscattando ancora una volta il prossimo con le sue storie come una profetessa Sherazade. Il salto è un salto dal passato ad un futuro che non è più distopia ma è già presente, dalla fiaba all’incubo, e sospetto che chi taccia questo fumetto di orientalista superficialità si sia fermato a leggere molto molto prima: è come trovarsi di fronte a due opere distinte, tra la prima e la seconda parte, in cui i tratti e i luoghi magici della prima vengono reincontrati, deturpati, nella seconda. In cui anche un atto che appariva spiritualmente puro come quello di Zam si scontra con la cruda realtà nella seconda e, per la prima volta nell’intero fumetto, gli dà voce in nove tavole senza disegni, di solo testo semplice, di pause bianche, di sole parole per un uomo che senza la sua donna si era chiuso nel più completo silenzio.

«Oh Allah, perché hai creato l’uomo?
L’uomo tradisce il suo Creatore.
L’uomo profana la Creazione.
L’uomo consuma ed espelle.
Fornica e violenta.»

E di fronte al paesaggio deturpato, al sogno spezzato, alla fiaba infranta, il responsabile è nello specchio di un fumetto che si chiude turbati e quasi commossi perché in fondo, alla fine, tutto si riduce ad una scelta, e nella scelta, nello spirito, al di là del corpo che si trasforma, c’è la speranza di un mondo migliore.

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