"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

Ricordando David Foster Wallace

Henry Fuseli, Il fantasma

Henry Fuseli, Il fantasma

Dal Manifesto di ieri:

Un mito quarantenne
Nato il 21 febbraio 1962 a Ithaca, New York, e figlio di un’insegnante di filosofia, David Foster Wallace è considerato il maggiore scrittore americano della sua generazione. La sua produzione letteraria è incredibilmente vasta e articolata; comprende raccolte di racconti come «La ragazza dai capelli strani» e «Oblio», romanzi di grande mole come «La scopa del sistema»e «Infinite Jest», numerosi reportage e saggi brillanti. Della non fiction fanno parte «Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più)», e «Considera l’aragosta». Ottimo giocatore di tennis, si dice intrattenesse dispute immaginarie con Wittgenstein del quale è un grande ammiratore. Ironizzando malignamente sulla sua sterminata e maniacale cultura, qualcuno sostiene che a suo tempo si addormentasse coccolando l’Oxford English Dictionary. In base a una voce recente, John Krasinski, giovane attore apparso in svariate serie televisive, starebbe scrivendo un adattamento cinematografico di «Brevi interviste con uomini schifosi». In Italia i suoi libri sono pubblicati da minimum fax ed Einaudi Stile libero.

Foster Wallace da un’era di infinita tristezza – Tommaso Pincio
C’è qualcosa più shakespeariano di Amleto vestito a lutto che si balocca con un teschio mentre rimugina se sia meglio «essere o non essere»? Probabilmente no. Peccato, però, che il dubbioso principe di Danimarca dica in realtà ben altro quando il becchino gli porge un cranio appena dissepolto: «Questo uomo io l’ho conosciuto, fu un giovanotto d’infinita arguzia». Ciò dicendo, Amleto ricorda il defunto buffone di corte cui il cranio in questione un tempo apparteneva. Queste parole sono inoltre all’origine del romanzo americano più rappresentativo dello scorso decennio. Con «infinita facezia» si è infatti soliti tradurre infinite jest ovvero il titolo del decantato e notoriamente ostico capolavoro di David Foster Wallace. Sono trascorsi dieci anni esatti dall’uscita di Infinite Jest. L’anniversario verrà celebrato con un’edizione speciale che dovrebbe sbarcare nelle librerie americane ai primi di novembre (da noi il romanzo è stato riproposto in questi giorni da Einaudi Stile libero, trad. Edoardo Nesi, pp. 1282, Euro 24). Ogni singola riga ha uno scopo. È probabile che dieci anni siano un lasso di tempo risibile per stabilire se un libro sia davvero rappresentativo della propria epoca. Senza contare, poi, che non ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui la letteratura diventa un fenomeno di costume come Il giovane Holden o Sulla strada. Per di più, all’epoca qualcuno mostrò anche perplessità sull’effettivo valore della inusitata fatica di Wallace. Con il tono bisbetico che l’ha resa famosa e temuta, Michiko Kakutani sentenziò che le mille e più pagine di Infinite Jest «sembrano scritte ed editate (ammesso che siano state sottoposte a un editing) in base al principio: più grosso è, meglio è». Secondo l’ineffabile critica, il libro ricorderebbe certe sculture incompiute di Michelangelo dove si avverte la presenza di «una creatura divina che cerca di combattere per emergere dal marmo senza però riuscirvi, rimanendo così scolpita solo per metà». Fu lo stesso Wallace a replicare, un mese dopo la recensione. «Quando la lunghezza di un libro sembra cosa gratuita, come ritiene un’affascinantissima signora che scrive per il New York Times, il lettore si irrita. Me ne rendo conto. Ma il manoscritto originale era di 1700 pagine e ne sono state tagliate quasi 500. L’editore non si è limitato ad acquistare i diritti del libro e a fargli strada. Lo ha rivisto due volte. Se il libro dà l’impressione di essere caotico, bene, ma ogni singola riga è lì per uno scopo preciso». Nessuno, nemmeno la Kakutani, osava avanzare dubbi sul talento di Wallace. Tutti lo consideravano – e continuano a farlo – uno dei più brillanti autori della sua generazione, uno scrittore capace di scrivere ciò che vuole usando qualunque tipo di registro. Allo stesso tempo, però, nessuno ha mancato di fare appunti riguardo la mastodontica baraonda di divagazioni, battute dotte, termini oscuri, note a piè di pagina e rimandi vari che rendono la lettura del libro poco consigliabile ai comuni mortali. Come può dunque un romanzo tanto elitario essere considerato rappresentativo di un intero decennio? In primo luogo, perché questa era l’intenzione dell’autore: «Volevo fare qualcosa di davvero americano e che parlasse di cosa significa vivere in America alla fine del millennio». Ovviamente, le intenzioni da sole non possono bastare; qualunque scrittore coltiva l’ambizione di offrire ai lettori un quadro illuminante del proprio tempo. Ma Wallace non era uno dei tanti. Da un lato era uguale a tanti giovani che si sentivano tristi e a disagio nell’America degli anni Novanta, dall’altro disponeva di strumenti eccezionali. Parlare a tutti rivolgendosi a pochi. Wallace ha sempre tenuto a specificare che, a dispetto del risultato finale, al fondo di Infinite Jest c’è una grande tristezza. «Ero bianco, benestante, colto da far schifo, e avevo avuto più successo di quanto potessi sperare. Eppure ero allo sbando. Un sacco di miei amici si trovavano nelle stesse condizioni. Alcuni facevano un uso massiccio di droghe, altri vivevano soltanto per il lavoro. Certi passavano tutte le sere nei bar per uomini soli. Una realtà che ti si parava davanti in venti modi diversi, ma che era sempre la stessa». La tristezza che Wallace si prefiggeva di ritrarre non scaturiva da condizioni di disagio economico né da chissà quali traumatiche esperienze; la tristezza sua e di altri giovani americani era «un fatto di stomaco», riguardava un senso di indefinito smarrimento e speciale angoscia che prova soltanto chi è abbastanza privilegiato da avere problemi superflui o comunque distanti anni luce da questioni di mera sopravvivenza quotidiana. È la tristezza di chi conosce il lusso di vivere in un mondo dove ti martellano di pubblicità perché hai soldi per comprare e tempo per divertiti. È insomma la tristezza prodotta dall’indice Nasdaq, lo smarrimento di coloro che furono giovani quando l’impero americano visse una fase di espansione economica senza precedenti, mostrando al contempo crepe preoccupanti e forse insanabili. Il legame che unisce sollazzi e morte. Quando Wallace parla della «reale» tristezza americana ha in mente la gigantesca macchina da commercio statunitense, la cui perversa efficacia si regge su un’idea semplice quanto paradossale: privilegio, lusso e superfluo possono essere convertiti in un prodotto di massa, vale a dire accessibile a chiunque. Certo, il risultato finale è piuttosto diverso dalle aspettative. Ma la macchina funziona proprio per questo, perché il luccichio della sua promessa è talmente abbagliante da offuscare la realtà. Infinite Jest sarà pure un libro elitario, ma proprio per questo è rappresentativo del contesto in cui è nato, perché parla a tutti rivolgendosi a pochi. La democrazia regolata dall’economia di mercato non è forse anch’essa una facezia di infinite proporzioni? Nel monologo che ha ispirato il titolo del romanzo di Wallace, Amleto riflette sulla vanità della vita. Ritornando col pensiero al tempo in cui era ancora un bambino, egli rammenta di quando il buffone lo intratteneva con la sua infinita facezia. «Dove sono adesso i tuoi sberleffi, le burle, le capriole, le canzoni, i folgoranti sprazzi d’allegria che facevan scoppiare dalle risa le tavolate?» si domanda Amleto, e mentre contempla ciò che è diventato il buffone – un teschio – non riesce a trattenere un moto di ribrezzo: «E ora? quale orrore! a guardarlo mi si rivolta lo stomaco». Anche in Wallace, il legame che unisce sollazzo e morte è forte e ripulsivo. Nel romanzo, Infinite Jest diventa il titolo di un film il cui potere di sedurre e intrattenere è tale che gli spettatori ne rimangono abbacinati e cadono in uno stato di contemplazione vegetativa, anticamera della morte. L’opera del perfetto intrattenimento non può che essere un’arma omicida: nella società dello spettacolo avanzato o si è spettatori o si è morti. Non ci sono alternative a queste due opzioni se non quella di trascinare la propria esistenza in una tristezza che nasce dallo stomaco. La vera novità degli anni Novanta non fu la caduta del Muro di Berlino – evento più che annunciato e al quale l’occidente si stava preparando da tempo – bensì la progressiva smaterializzazione del mondo. Grazie a una brusca impennata tecnologica, divenne sempre più normale scambiare prodotti e intrattenere rapporti al di fuori dei confini dello spazio fisico. Conseguentemente, le possibilità di intrattenimento aumentarono in modo esponenziale; l’essenza stessa dell’intrattenimento era mutata per sempre, assumendo forme impensabili fino a pochi anni prima, estendendosi sempre più in territori che prima non gli competevano, rendendo gli individui sempre più prigionieri del loro tempo libero. Nel tamagotchi un segno dei tempi. Un simbolo di questo cambiamento epocale è sicuramente il tamagotchi, il pulcino digitale che va accudito come un essere vivente. Il tamagotchi ha esigenze proprie, ha bisogno di mangiare, evacuare le scorie e divertirsi. Come un vero animale domestico, è soggetto a un ciclo vitale che il proprietario deve rispettare, pena la morte del tamagotchi. Il giocattolo – in teoria, oggetto di svago – diventa così una fonte di impegni inderogabili. Furono in molti a contestare l’assurdità della cosa sottolineando il rischio che i bambini perdessero il senso della realtà. E non soltanto i bambini. Per dar da mangiare al suo pulcino elettronico, un automobilista francese investì un ciclista in carne e ossa. Nei fatti, il tamagotchi era un segno dei tempi. Fu inventato nel 1996 – lo stesso anno in cui uscì Infinite Jest – e non fece che rendere palese il perverso livello raggiunto dall’industria dell’intrattenimento. Non ci si svagava più per il puro piacere, ci si doveva svagare affinché le macchine da divertimento sopravvivessero. Sempre nel 1996, il quotidiano «USA Today» chiese a sei esperti di fornire una definizione di «generazione X» ovvero dei giovani che, non senza difficoltà, cercavano di orientarsi nel nuovo mondo. Portavoce indiscusso di questa generazione fu la rockstar Kurt Cobain. Non a caso, il ritornello del suo più grande successo, Smells like teen spirit, suona più o meno così: «Eccoci qua, intrattienici. Mi sento stupido e contagioso. Eccoci qua, intrattienici». Nello stesso periodo in cui Wallace lavorava a Infinite Jest, il leader dei Nirvana si uccise lasciando una lettera dove spiegava che il piacere che un tempo provava a fare musica si era trasformato nell’obbligo di divertire il pubblico. Cobain chiuse la lettera con un accenno ai dolori di stomaco che gli avevano reso insopportabile la vita. C’è forse bisogno di aggiungere altro? È probabile che a questo punto, i lettori si aspettino qualche informazione sull’effettivo contenuto del romanzo di David Foster Wallace. Riassumere nello spazio di un articolo le tante trame che vi si intrecciano, anzi, che vi si intrattengono non è compito facile; ancora oggi, tra i nerd della letteratura, si dibatte su quale sia il riassunto migliore. Dunque non mi cimenterò. Racconterò invece una storia di quel periodo e che sembra presa da Infinite Jest. Una storia emblematica. Sul finire degli anni Ottanta, un’indagine di mercato effettuata dalla Coca-Cola Company rivelò che «Coke» era la seconda parola più diffusa tra tutte le lingue parlate sul pianeta. La prima era «OK». Qualche tempo dopo, nel 1994, il capo del settore marketing Sergio Zyman ritenne che fosse il caso di sfruttare questo marchio di fabbrica non registrato e ideò così una nuova bibita chiamata «OK Soda». Sembrava l’uovo di Colombo; non poteva non funzionare, bisognava soltanto trovare il modo di lanciarla. La Coca-Cola Company commissionò ricerche per capire chi fossero i giovani degli anni Novanta e mettere a punto un’adeguata campagna promozionale. Naturalmente, gli esperti appurarono che la generazione X era composta di persone perlopiù «depresse, ciniche, frustrate, apatiche, edoniste e nichiliste». Più o meno lo stesso ritratto che usciva fuori dai Simpsons o dalle canzoni grunge. Si accertò pure che i giovani erano perfettamente consapevoli di essere manipolati dai media, per cui tanto valeva concepire una campagna al contrario dove il prodotto non veniva presentato come illusoria chiave per la felicità, ma era invece lo specchio del malessere che attanagliava il consumatore. Fu deciso che lo slogan della nuova bibita fosse «Andrà tutto OK». Tanto gratuito ottimismo sarebbe stato contraddetto da una grafica grigia e deprimente. Bottiglie e lattine furono decorate con disegni di giovani che sembravano il ritratto sputato della tristezza. Il senso era quello di rendere evidente l’imbroglio: la OK Soda non avrebbe risolto affatto i problemi del consumatore. D’altronde, come avrebbe potuto? In fondo, era solo una bibita che la Coca-Cola Company voleva vendere. Bevendola si sarebbe rimasti tristi come prima di acquistarla. Questa pubblicità scoperta nascondeva però un messaggio più subdolo che si potrebbe sintetizzare così: «Tu sai come vanno le cose, tu sai che vogliamo soltanto i tuoi soldi e sai pure che in un modo o nell’altro li avremo. Quindi dacceli e basta». A voler fare i paranoici, si potrebbe pensare che la campagna promozionale della OK Soda contenesse un invito subliminale rivolto ai giovani: «Non ribellatevi, tanto è inutile. Diventate passivi, accettate il sistema così com’è». Infatti, qualcuno notò che la strategia scelta dalla Coca-Cola Company era simile a quella adottata dalla CIA qualche decennio addietro in certi esperimenti finalizzati al controllo della mente. C’è un limite a tutto. L’OK Soda fu davvero un complotto ordito da CIA e Coca-Cola per rendere più rinunciatarie e remissive le nuove generazioni? La campagna pubblicitaria fu enorme e interessò tutto il territorio nazionale. La bibita vera e propria fu però lanciata solo in quattordici città campione, tra cui la contestataria Seattle. Fu ritirata dal mercato pochi mesi dopo con la spiegazione che i consumatori non avevano risposto secondo le aspettative. Letta in chiave paranoica, potrebbe essere la prova che in effetti non si voleva lanciare nessuna nuova bibita, ma soltanto martellare le menti. Ma c’è un’altra possibilità. Può anche essere che i passivi eterni adolescenti della generazione X abbiano davvero rifiutato di essere manipolati in modo tanto sfacciato. Se così fosse, vorrebbe dire che c’è ancora spazio per ben sperare. Vorrebbe dire che c’è ancora un limite a tutto e che le facezie non sono sempre infinite come sembrano.

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