La città post-comunista

Bologna è una vecchia signora… sempre dal Manifesto di oggi. Ritratto sfocato di una metropoli emblematica – Massimo Ilardi «La più grande metropoli mondiale della politica», questo il giudizio che Fausto Anderlini riserva a Bologna nel suo libro titolato La città trans-comunista (Edizioni Pendragon, 2006), vero e proprio diario di viaggio che racconta l’esodo del […]

Bologna è una vecchia signora… sempre dal Manifesto di oggi.

Ritratto sfocato di una metropoli emblematica – Massimo Ilardi
«La più grande metropoli mondiale della politica», questo il giudizio che Fausto Anderlini riserva a Bologna nel suo libro titolato La città trans-comunista (Edizioni Pendragon, 2006), vero e proprio diario di viaggio che racconta l’esodo del popolo comunista dal Pci ai Ds attraverso un «guazzabuglio di annotazioni empiriche»: testi di canzoni, esercitazioni letterarie, ritratti di persone, aneddoti, ricordi autobiografici, descrizioni dei rituali di partito, annotazioni sui rapporti personali tra militanti, il tutto scritto con pungente ironia e sufficiente distacco. Ma l’aspetto più interessante del lavoro di Anderlini è il suo avventurarsi su quel terreno difficile e rischioso che è rappresentato dall’organizzazione di un partito che, come scrive Maurice Duverger, si basa essenzialmente su pratiche e usanze non scritte: «Statuti e regolamenti interni, quando lo fanno, non descrivono che una minima parte della realtà, giacchè raramente vengono applicati in modo rigoroso. (…) Soltanto i vecchi militanti del partito conoscono bene i meandri della organizzazione e le sottigliezze e gli intrighi che vi si allacciano.» Anderlini non è vecchio, ma è un militante di lungo corso che, dagli anni ’60, ha attraversato come protagonista della politica locale la travagliata storia del partito, sperimentando sia la grigia monotonia delle sue stanze, sia il dispiegarsi della sua forza politica radicata dentro la ferrea tradizione del lavoro sul territorio. Per questo riesce, con rapide pennellate, a delineare i tratti politici e antropologici dei suoi leader e a cogliere con puntualità le trasformazioni culturali e sociali che hanno accompagnato la formazione del suo ceto politico e amministrativo. Ma non solo. Proprio perché la sua vita si è dipanata dentro i meandri della organizzazione, possiede anche la fatalistica consapevolezza del fatto che spesso in politica le grandi vittorie, come le grandi sconfitte, sono dovute al caso o all’azzardo. Dunque, il viaggio si svolge in maniera avvincente e spesso piacevole, finché nell’ultima parte del libro interviene a rendere disagevole il cammino l’abbandono, da parte dell’autore, di quel disincanto che aveva reso leggera e condivisibile la navigazione. Ora, infatti, Anderlini prende decisamente posizione e lo fa per Sergio Cofferati. Posizione legittima se non fosse che questa scelta lo porta a tranciare giudizi pesanti su tutti quelli che non rispettano l’ordine e la legalità che il sindaco vorrebbe imporre. Regole che disegnano non spazi liquidi ma recinti duri – come direbbe Franco Purini – pensati e costruiti per limitare, escludere e controllare sia al centro che nella periferia. Ma il fatto è che a Bologna si è pensato fosse possibile rimuovere i problemi della periferia controllando la crescita della città razionalmente e decorosamente tramite atti volontaristici. Alla fine, i fautori della conservazione assoluta del centro storico e del suo ordine si sono ritrovata la periferia dell’iperconsumo e dei fast food nei luoghi sacri della storia, e non poteva andare diversamente. La necessità del consumo, con i modelli di vita che induce, non ammette ostacoli e quando li incontra innesca un conflitto tra il desiderio e il tentativo di controllarlo. Il lato comico-grottesco, a differenza di quanto pensa Anderlini, non sta nei rituali di queste dinamiche, ma nelle pretese di coloro che pensano di portarne i protagonisti intorno al tavolo delle trattative, come si trattasse di soddisfare rivendicazioni sindacali. Un territorio metropolitano oggi è tale non perché raccoglie persone diverse attorno a un principio comune, non perché impone ordine e stabilità ma, al contrario, perché proietta sul territorio una rappresentazione diretta e concreta delle nostre utopie in un mondo che appare senza futuro, dove prolificano le divisioni sociali e le regole sono sospese. Se così non fosse vivremmo tutti beati e beoti nello spazio liscio del mercato; è vero, invece, che nessun ritorno ai «luoghi» della tradizione è consentito: nessuna appartenenza pacificata o identità forte o memoria condivisa li abita, proprio perché è il conflitto che li nomina e li trasforma. E dunque, la Casa del popolo rimpianta da Anderlini, con la sua sala da ballo che faceva comunità, già allora non creava uno spazio pubblico ma solo consenso sociale a un partito che, almeno a Bologna, era al governo. Lo spazio pubblico non è quello della chiacchiera, degli esercizi ginnici o della devozione, è invece quello dove si decide la governabilità di un territorio. E a crearlo, ad esempio, è proprio quella cultura rave che nulla ha a che vedere con quella massa narcisa, nichilista, alienata ed esibizionista di cui parla Anderlini. Non a caso, è proprio dentro il rave non autorizzato che si è formata la sperimentazione artistica, linguistica, musicale, informatica e anche politica della generazione degli anni ’90. E, d’altra parte, non è forse vero che proprio la generazione di Anderlini e di Cofferati ha dimostrato sulla strada che un movimento è tale perché rifugge l’istituzionalizzazione? Se non si ha più voglia di tornare sulla strada, basterebbe leggersi qualche bel libro di J.G. Ballard, uno che di metropoli se ne intende, per capire come proprio l’esasperazione del controllo «legale» e la chiusura degli spazi producano prima o poi quelle figure di devianti, di marginali e di sradicati sulle quali Anderlini spesso ironizza.

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