Ricordate Tin Man, la versione cyberpunk sadomaso del Mago di Oz? O The Lost Room, in cui un detective indagava su mistici oggetti di una stanza d’albergo? O The Dresden Files, la serie sul mago di Chicago da una serie di racconti di Jim Butcher? Beh, questa serie è figlia delle stesse menti, e la cosa dovrebbe essere una presentazione sufficiente: i due romanzi di Lewis Carrol, così spesso mescolati come se si trattasse di uno solo, vengono presi e riadattati in chiave fantascientifica e cyberpunk, per darci un’ambientazione paranoide ambientata 150 dopo gli eventi che videro la precedente Alice come protagonista, un’ambientazione in cui le suits sono il quarto seme delle carte.
Ma andiamo con ordine.
La nostra Alice Hamilton è un’insegnante di arti marziali con un problema nei rapporti di coppia ed un conflitto irrisolto con il padre, che abbandonò la famiglia senza una parola anni addietro. Quando incontra il bellimbusto Jack Chase, forse si ricorda di averlo già visto nella rivisitazione molto steam e poco punk di Robinson Crusoe, ed effettivamente la sua diffidenza non è del tutto ingiustificabile: accade quello che spesso accade, lui forza le tappe regalandole un anello e lei ha bisogno di tempo per pensare. Ma il ragazzo non sembra darsi per vinto e così, mentre lei lo rincorre per reinfilargli quell’anello da dove gli è uscito, fa in tempo ad assistere al suo rapimento da parte del bianconiglio, un vecchietto con i codini che generalmente fa il rabbino o il patriarca ortodosso, ma che senza barba potrebbe tranquillamente fare il maniaco. Lei stessa, attratta da un tavolo di cristallo con appoggiata sopra una boccetta di liquido colorato, viene inscatolata, marchiata come ostrica e rapita. Cosa sono le ostriche? Gli esseri umani che vengono rapiti dal loro mondo e portati nel Paese delle Meraviglie, dove la Regina di Cuori li usa per distillare emozioni istantanee da somministrare ai suoi sudditi, delle potenti droghe con cui controllare un mondo. Alla ricerca del suo Jack, Alice finisce proprio in una di queste "sale da té", dove le emozioni distillate e imbottigliate vengono vendute al miglior offerente (o sarebbero vendute se il banditore dormisse un po’ meno): la gestisce, naturalmente, una versione ribelle e ska del Cappellaio (interpretato da Andrew Lee Potts, il Connor Temple di Primeval). Ammanicato con la ribellione ma opportunista, filantropo ma attaccato alla pelle, doppiogiochista ma poi nemmeno tanto, paradossalmente il Cappellaio ha molto degli schemi di Jack Sparrow nel primo Pirati dei Caraibi (pur senza averne la follia o il talento nel recitare): non è ben chiaro da che parte stia ma istintivamente si parteggia per lui, sperando nel proprio intimo che sappia cosa diavolo sta facendo. E’ il cappellaio a condurre Alice dal Dodo, uno dei capi della resistenza e nientedimeno che un ingrassatissimo Tim Curry, ma ha fatto male i suoi conti: l’anello che il Cappellaio sperava di poter usare come pagamento affnché il Dodo aiutasse Alice a recuperare il suo Jack, si rivela essere l’anello che comanda lo specchio della regina, lo strumento diabolico attraverso il quale i conigli bianchi rapiscono le ostriche e le portano nel Casinò di Cuori, ciò su cui in sostanza si basa l’economia e la tirannide del regno. Sarebbe una gran bella scoperta se non fosse che Dodo non è affatto una persona affabile né particolarmente raffinata nonostante stia di casa in una libreria. Alice e il Cappellaio sfuggono per un pelo mentre la regina Kathy Bates, con l’aiuto del Carpentiere, dà vita ad una versione cyborg ed assassina della lepre marzolina.
Continuo o ne avete abbastanza? Tra cavalieri non cavalieri con qualche rotella in meno, citazioni dal libro buttate lì a manciate, ricongiungimenti familiari strappalacrime e duchesse che proprio non sanno recitare, con un cameo di Harry Dean Stanton che torna nei panni del Brucaliffo, tutto si conclude per il meglio e l’amore trionfa. Oltre al fatto che Wonderland è il paradiso del designer: il trono della regina è la poltrona a cuore di Verner Panton, mentre il cappellaio siede su una Egg di Arne Jacobsen. Lo scarafaggio che rapisce le ostriche sembra la Nebuchadnezzar, l’ospedale dei sogni sembra l’hotel di Enki Bilal, l’inseguimento dei fenicotteri volanti è un omaggio al Ritorno dello Jedi. Insomma, questa miniserie ha tutto quello che un appassionato di fantascienza e design potrebbe desiderare.
5 Comments
utente anonimo
Posted at 00:41h, 20 JanuaryC’è anche lo Stregatto? Altrimenti non lo guardo :-)
Simone
Shelidon
Posted at 19:16h, 20 JanuaryC’è. Un cameo ma c’è.
utente anonimo
Posted at 23:06h, 09 AprilVisto (alla buon ora).
Peccato che lo stregatto sia a mala pena un sorriso.
Per il resto ho la sensazione che abbia alcune delle cose che mancano all'Alice di Tim Burton.
Simone
Shelidon
Posted at 06:34h, 12 AprilSì. In compenso ha tutta una serie di altre cose che avrebbero potuto risparmiarsi, ma nel complesso non è male.
Pingback:Shelidon › Peter Pan – The beginning
Posted at 14:44h, 14 February[…] fantascienza è obiettivamente andata a farsi benedire un sacco di tempo fa) per cose come Tin Man, The Lost Room e Alice? Ricordate quando dicevo che erano dei geni, garanzia di qualità? Ecco, ho cambiato idea. […]