"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

Silent Hill

Silent Hill


Sono sicura che qualcuno di mia conoscenza apprezzerà questo articoli dal Manifesto di ieri…

Caccia alle streghe sulla collina degli orrori – Federico Ercole
Corridoi semibui popolati da branchi di nanetti deformi e guaiolanti; abominii quasi antropomorfi con le braccia saldate ai fianchi, che sputano veleno nero corrosivo da uno sfintere sul petto; infermiere mutate senza occhi e labbra (ma con fauci feline) che brandiscono bisturi, in agguato nelle tenebre. Diventano celluloide gli orrori elettronici di Silent Hill, videogioco Konami arrivato al quarto episodio (1999-2004), che ha terrorizzato i possessori di playstation con le sue atmosfere sempre disperanti, i finali con suicidi e tragedie e la stimmung angosciante che lo differenzia da ogni altro gioco horror. Scritto da Roger Avary e diretto da Cristophe Gans, Silent Hill è prodotto anche da Akira Yamaoka, musicista e direttore dei suoni della serie, creatore di veri mostri musicali che risuonano dall’altrove tra le ombre e le nebbie della cittadina immaginaria degli States da cui deriva il titolo; molte delle musiche che accompagnano le immagini sono dell’autore giapponese, senza i cui toni e rumori non potrebbero reggere le architetture del l paesello «abbandonato». Avary, ispirandosi al primo e al terzo episodio della serie, ha scritto un intreccio crudissimo e mai smussato, nei suoi spigoli più splatter, dalla lima del politicamente corretto; è un dramma che racconta fanatismi religiosi e fondamentalismo cristiano, la caccia alle streghe perpetuata da bigotti ultraviolenti che bruciano fanciulle inermi (perché senza padre e quindi frutto del peccato), una congrega che abita una chiesa diroccata credendo che ovunque nel mondo si sia scatenata l’apocalisse. Ma la vendetta della piccola strega, è terribile; così, quando suona l’allarme, Silent Hill scivola in un’altra dimensione fatta di catene uncinanti, di metalliche pareti grondanti sangue e fuochi asfissianti. Oltre la vicenda narrata (una madre insegue la figlia adottata persa nella cittadina, una poliziotta traumatizzata insegue la donna, poi arriva il marito) Gans ha messo in scena questo horror agghiacciante e quindi refrigerante riuscendo per la prima volta in una pellicola, tratta da un videogame del terrore, a ripristinare il linguaggio videoludico dello spavento. Ci sono lunghi piano sequenza di camminate con la macchina che riprende il personaggio alle spalle come nelle visuali in terza persona dei videogiochi, c’è un ricorso frequente all’utilizzo della mappa attraverso la quale la protagonista può memorizzare il cammino da percorrere, ci sono gli enigmi la cui risoluzione procura gli indizi per proseguire. Gli attori fanno cose che in un film sembrerebbero illogiche ma che non lo sono nei videogiochi, come entrare in una scuola minacciosa e scavare mettersi a cercare in ogni cassetto e mobilia, sperando di trovare una chiave, un’arma, un file esplicativo o uno spray curativo. Se solitamente gli attori virtuali mimano il comportamento degli attori reali, in Silent Hill al contrario è l’attore che interpreta un carattere digitale. La suspense chiude lo stomaco e il senso di spavento è costante e non lascia spazio a risate liberatorie; ma si tratta di uno spavento orchestrato tra disagio, disgusto politico- etico-fisiologico, orrore lovecraftiano per l’inesplicabile, repulsione ed eccitazione. Se i videogiochi Konami, campioni elettronici dell’ horror tra Eraserhead e Hellraiser ( Resident Evil, l’altro celebre horror videoludico è invece tra Dawn of The Dead e Parasite Murders, quindi altre coordinate altro terrore) superano per complessità estetica e teorica il film, questo offre comunque una bella galleria di pittorici e suggestivi segmenti di orrore di celluloide: la cenere che cade come neve tra le nebbie; testa di piramide, il mostro più cool della serie, che prima spoglia una credente e poi la scuoia con una rapida artigliata davanti alla porta della chiesa; le infermiere mutanti che si muovono in gruppo illuminate da una torcia e che poi si immobilizzano confuse quando la luce viene spenta; il ritorno alla realtà dalla dimensione oscura con Ring of Fire di Johnny Cash; la fanciulla bruciata che soffre sognando vendetta; i manichini che occhieggiano dalle vetrine polverose; le alterazioni improvvise delle architetture; sciami d’insetti che formano figure quasi antropomorfe; la predicatrice dal volto cliché di buona nonna americana, detentrice fiera di valori immortali, che spaventa più di ogni bavoso abominio. È evidente che Silent Hill è uno spettro dell’America di oggi, i suoi fanatici sono una variazione horror dei crociati di Bush che combattono il «male» , bruciando le «streghe» del nostro contemporaneo. L’estetica orrenda del mondo oscuro sotto (o tra) Silent Hill, la scempia non luce che ne illumina le superfici metalliche ed epidermiche, rimanda a quella dei video e delle foto girate dai torturatori di Abu Ghraib.
D’altronde «how could hell be any worse…», cantavano i Bad Religion.

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