"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma

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L’avventura ruota attorno ad alcuni personaggi storici, primo fra tutti il funzionario Dì Rénjié, vissuto tra il 630 e il 700 durante la crisi della dinastia Tang e la reggenza di Wu Zetian, la famigerata unica imperatrice di Cina (il personaggio era già stato portato nella fiction dalla serie di romanzi gialli del Giudice Dee, scritti da Robert Van Gulik dopo la prima traduzione di un originale cinese del XXVIII secolo, e oggi continuati dal francese Frédéric Lenormand). Tra gli altri personaggi storici che appaiono nel film, oltre alla stessa imperatrice Wu Zetian, un personaggio modellato vagamente sul poeta di corte e consigliere Shangguan Wan’er, interpretato da Li Bingbing e di cui parlerò tra poco.
Il film, uscito in patria un paio di anni fa, vede la partecipazione oltre che della già citata Li Bingbing, di Andy Lau (già baritono che non vuole nell’operistica trama della Foresta dei Pugnali Volanti) nel ruolo del detective originariamente pensato per Jet Li, e la granitica Carina Lau nel ruolo dell’imperatrice.
Il film è diretto da Tsui Hark, che mi dicono essere un esperto dei vari generi di cui è composto questo Detective Dee, con al carico cose come The Flying Swords of Dragon Gate (con il già citato Jet Li), A Chinese Ghost Story e quella stranissima cosa ai limiti dell’improponibile che era Seven Swords (che a saperlo magari uno lasciava anche perdere). In questo giallo fantasy che il regista preferisce definire un film catastrofico, Tsui Hark cesella di fino una trama alla Edgar Allan Poe, un delicato ricamo in bilico tra la magia e la scienza, tra la fede e la razionalità. Poi, non pago, prende il martello pneumatico e nel suo finissimo lavoro di cesello pianta dentro cinque o sei vaccate apocalittiche, così, per il gusto:

  • gigantesca vaccata numero 1: Pei Donglai, il poliziotto albino di Chao Deng, che fa una capriola e ha una mossa speciale anche per dire che è finita la carta igienica e che, per carità, alla fine è tutt’altro che un pirla ma che certamente si comporta come tale;
  • gigantesca vaccata numero 2: il cervo che parla, che secondo il regista in un’intervista sei contenuti speciali “era proprio necessario” (ma mi permetto di dissentire);
  • gigantesca vaccata numero 3: l’agopuntura che trasfigura, perché anche il mio medico dice che dopo una sessione ti sentirai un altro, ma non penso proprio intenda in senso tanto letterale;
  • gigantesca vaccata numero 4 e numero 5: la carica dei cervi ammaestrati, come se non bastasse il cervo parlante, e onestamente vale per due.

Intendiamoci: non ce l’ho con il soprannaturale a prescindere, anche se forse avrei apprezzato maggiormente un film che si fosse mantenuto su una linea più razionalmente “purista”, date le premesse. Mi piace l’idea del mercato nero, che fa molto Neil Gaiman, come mi piace l’idea delle “marionette” (guardare il film per credere), ma l’espediente dell’agopuntura era assolutamente non necessario ai fini della trama, che poteva essere risolta in modo assai meno rocambolesco, per tacere dei cervi. L’idea del veleno e del Buddha sono ottime, ma sembra che i lunghi combattimenti rubino scena ai passaggi dell’indagine, costringendo nella fase finale ad eliminare i passaggi da una scoperta all’altra, rendendo leggermente confuso il susseguirsi degli eventi. Insomma, il film ha chiaramente intenzione di essere un film che mescola vari generi, e in questo intento riesce perfettamente, ma quando si trova a corto di respiro questa policromia si spampana e non paga. In ogni caso, un film consigliato sia agli amanti del cinema di Hong Kong che a chi spera sempre di vedere qualcosa di diverso.

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