Hugo

Prendete le scenografie da sogno, quasi teatrali, di Gangs of New York. Lavatele per bene per togliere il sangue di Leonardo di Caprio. Sciacquate il cervello di Neil Gaiman e Terry Pratchett, tenendo da parte l’acqua. Prendete alcune idee di The Illusionist e tritatele finemente. Mettete tutto in un calderone, portate a ebollizione e poi […]

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Prendete le scenografie da sogno, quasi teatrali, di Gangs of New York. Lavatele per bene per togliere il sangue di Leonardo di Caprio. Sciacquate il cervello di Neil Gaiman e Terry Pratchett, tenendo da parte l’acqua. Prendete alcune idee di The Illusionist e tritatele finemente. Mettete tutto in un calderone, portate a ebollizione e poi spolverate il tutto con un po’ del materiale originario di Georges Méliès: otterrete un film delizioso e spontaneo, un film poetico ma estremamente concreto che parla di giocattoli meccanici, di orfani che vivono negli orologi, del microcosmo che si dipana attorno ad un luogo di passaggio come la stazione ferroviaria ma soprattutto parla di un padre del cinema e di cosa accade agli uomini quando perdono il loro scopo. A tutti gli uomini ma soprattutto, dal punto di vista del regista tanto vicino al suo secondo protagonista, degli uomini che hanno in loro un bisogno di creare e di narrare, di esprimersi.
Nel film troviamo uno straordinario Ben Kingsley che, reduce dallo zio cattivo di Prince of Persia, qui si produce in un’interpretazione elegantemente intensa di Méliès, un’interpretazione che, complice la straordinaria somiglianza all’originale, riesce in poche mosse a far perdere di vista l’attore di fronte al personaggio, lasciando solo il vecchio genio a muoversi in scena. Al suo fianco, oltre ad una splendida Helen McCrory ancora più plausibile nei panni della ex-sirena dopo essere stata Narcissa Malfoy, un ragazzino che miracolosamente smentisce la mia regola d’oro “niente bambini al cinema, né davanti né dietro al grande schermo”: Asa Butterfield, già Mordred in Merlin, sgattaiola nella parte con una vivacità del tutto spontanea e nel contempo con uno sguardo serio, da adulto, che ben si adatta al ruolo dell’orfano orologiaio ossessionato dal viso enigmatico e inquietante della sua personalissima sfinge meccanica. Potrei dire che, come per Midnight in Parisq, non conta molto l’attore quanto il regista che riesce a dirigerlo, ma ahimé nemmeno l’altissima maestria di Martin Scorsese è in grado di far recitare la ragazzina inutile di turno, con troppi occhi e troppa bocca per non essere una delle Fanning, o di chetare le intemperanze di Sacha Baron Cohen, troppo sopra le righe persino per essere un gendarme psicopatico con traumi infantili e una gamba meccanica. Oltre a loro, li affianca in una piccola parte l’altissimo (letteralmente) Christopher Lee, per l’occasione personaggio positivo. Piccole parti anche della gigantessa e dello zio di Harry Potter, oltre che di Jude Law, mentre ritroviamo l’uomo quantico di Men in Black III nei panni del critico cinematografico.
Il film è tratto dal romanzo The Invention of Hugo Cabret, di Brian Selznick con illustrazioni dello stesso: un libro che a questo punto sarei curiosa di leggere.

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