Natale 1183, castello di Chinon dove Re Enrico II d’Inghiterra detto il Plantageneto ha stabilito la sua corte: lo raggiungono la sposa Eleonora d’Aquitania, uscita per l’occasione dalla sua prigionia, ed i tre figli Riccardo (cuor di leone), Giovanni (re fasullo) e Goffredo, oltre al re di Francia Filippo II. Motivo dell’incontro, e del contendere, è la successione al trono.
Lo so, è ovvio. Guardare questo film senza fare il confronto con il suo fratello maggiore è piuttosto difficile, difficile non confrontare Glenn Close con Katharine Hepburne, Patrick Stewart con Peter O’ Toole, Andrew Howard con Anthony Hopkins, Timothy Dalton con Johnathan Rhys Meyers.
Andrei Konchalovsky si cimenta con una certa umiltà nell’impresa di approcciarsi al vecchio capolavoro di Anthony Harvey, nonostante abbia molte carte in regola per competere. Una splendida fotografia, innanzitutto, ed un’ambientazione che non indugia eccessivamente in quel compiacimento ruvido del suo predecessore. Una maggior fedeltà allo script originale, oserei dire, complice anche uno straordinario e mefistofelico Rhys Meyers che ridà smalto al re di Francia, amante di Riccardo, laddove l’interpretazione mellifua di Timothy Dalton poteva non entusiasmare. E che dire dello stesso Riccardo? Sembrerà un’eresia, ma ho adorato questo Riccardo (Andrew Howard, unico ruolo degno di nota in The Devil’s Chair, e ho detto tutto), un Riccardo sfaccettato come il copione esige, un Riccardo che in seguito sarà re ma non se ne curerà, che farà rilasciare il suo assassino e darà ordine di smembrare il proprio corpo per essere seppellito in tre luoghi diversi. Un Riccardo, in sintesi, di gran lunga migliore dell’imbronciato monoblocco portato sul grande schermo da Anthony Hopkins. Eccessivamente caricaturale, forse, è invece la scelta di Rafe Spall (Shaun of the Dead) nel ruolo del giovane e brufoloso principe Giovanni: non più grottesco dell’originale, ma sempre troppo grottesco. Che dire invece di Goffredo? John Castle era moderatamente perfetto, nella sua algida eleganza: John Light è, per parafrasare Dickens, provvisto di troppi capelli in testa e di troppa barba in faccia. Nulla da eccepire sull’interpretazione, ma temo non abbia proprio la presenza adatta al ruolo. E cosa dire del confronto tra le due Alys? Se Jane Merrow era scipita ma onesta, Yuliya Vysotskaya è onesta ma scipita. E temo proprio che serva ben altro per dare smalto a questo difficile personaggio.
Ma veniamo ai punti focali della questione. Patrick Stewart è semplicemente meraviglioso, ed era il punto che più mi lasciava perplessa. Certo, non devia dall’interpretazione canonica, ma è intenso e regale, violento e iracondo, piegato e indomito. E con la scena in cui rinnega i suoi figli riesce addirittura a dare dei punti ad O’Toole. «My life, when it is written, will read better than it lived. Henry Fitz-Empress, first Plantagenet, a king at twenty-one, the ablest soldier of an able time. He led men well, he cared for justice when he could and ruled, for thirty years, a state as great as Charlemagne’s. He married out of love, a woman out of legend. Not in Alexandria, or Rome, or Camelot has there been such a queen. She bore him many children. But no sons.»
Non ugualmente fortunata è Glenn Close. Cos’è successo alla marchesa de Merteuil? Dov’è finita la regina Gertrude? Ho riflettuto, e credo di aver capito cosa non funziona di lei in questo film. Se Katharine Hepburn era tanto splendida quanto drammatica, in Glenn Close è rimasto solo il dramma, mentre si è scelto di spegnere la bellezza dietro un costante velo di quella che oserei definire regale sciatteria. “Perché la regina porta un asciugamano in testa?”, dovrebbe alzarsi a chiedere un ipotetico bambino della corte. La cosa è evidente nella scena della corona, quando la regina nella sua stanza ha sciolto i capelli e guarda la propria immagine sfiorita allo specchio, indossando tutti i gioielli che ha. Non vi è alcuna differenza e, quando vi è, è quasi in meglio: laddove la Hepburne riusciva a mostrare uno splendido contrasto in quell’unico momento di intimità, Glenn Close riesce bene solo nella scena sul suo ipotetico amplesso con il padre di Enrico, ma paradossalmente solo perchè ha un grande Patrick Stewart a farle da spalla. Per il resto, ahimé, è l’anello debole di questo comunque ottimo film. Chi l’avrebbe mai detto?
2 Comments
Elderion
Posted at 15:20h, 19 JanuaryChe vuol dire “scipita”??
Shelidon
Posted at 20:20h, 19 JanuaryE’ come sciapito, ma quando una cosa non è insipida di suo bensì lo è diventata. Etimo qui.