Alla scoperta dell’oro armati di sola acqua –Antonio Forcellino
Nella primavera del 2005, insieme a un’altra restauratrice, Manuela Micangeli, cominciavamo ad affrontare il restauro della facciata del Duomo di Siena. Con il crescere del ponteggio cresceva la nostra apprensione per un’impresa così impegnativa e per molti versi particolarmente complessa. Costruita a partire dalla fine del ‘200 su un progetto di Giovanni Pisano, la facciata, impostata su tre arconi sormontati da timpani fiancheggiati da altissime torri, è costituita da una varietà di materiali che ha confronti possibili con pochi altri edifici al mondo. Marmi rossi, verdi, bianchi e neri, mosaici in vetro dorato e in pasta colorata sono accostati in una immensa macchina costruttiva, che alla varietà dei materiali aggiunge l’ardimento delle soluzioni statiche, come le torri e le guglie traforate, da cui sporgono decine di «gargolle», i minacciosi animali di pietra che guardano il sagrato da un’altezza vertiginosa. A ogni marmo il suo rimedio. Come in molte altre città europee, la costruzione della cattedrale era l’occasione per mostrare non soltanto la devozione della collettività, ma anche la sua ricchezza e la sua sapienza tecnologica, spinta quasi sempre ai limiti del possibile. A Siena, poi, questo desiderio fu tanto grande da sfiorare il delirio, se si pensa che pochi anni dopo l’inizio della costruzione, intorno al 1308 fu deciso di ampliare la cattedrale fino a occupare l’intera sommità della collina. La peste del 1348 fiaccò le ambizioni dei senesi, che dunque tornarono a un progetto meno faraonico e restrinsero alle dimensioni attuali, pur sempre grandiose, la loro chiesa principale; non prima, però, di avere costruito colonne altissime e archi immensi che ancora oggi testimoniano, nella porzione meridionale della piazza, l’enormità delle loro ambizioni. Quasi a risarcimento delle aspirazioni alla monumentalità poi abbandonate, la cattedrale venne dotata di un apparato decorativo così ricco nella facciata da lasciare esterrefatti i viaggiatori di allora come quelli di oggi. L’apparato decorativo fu progettato con l’accostamento di materiali pregiati e eterogenei, che nel tempo hanno subito un processo di degrado particolare al quale occorreva far fronte con specifiche provvisioni conservative. Puliture e consolidamenti che vanno bene per un determinato marmo sono dannose se applicate a quello che gli sta a fianco, e una particolare accortezza richiede la soluzione dei problemi posti dalle sculture appoggiate alle mensole, esposte come sono al sole bruciante e al gelo invernale, che ghiaccia l’acqua infiltrata negli interstizi. Problemi, questi, da affrontare a un’altezza vertiginosa, esposti all’aggressione violenta degli agenti atmosferici, che sulla sommità della collina senese raggiungono una notevole turbolenza. Ma per noi che dovevamo affrontare un restauro di materiali così eterogenei e così compromessi, la preoccupazione maggiore era costituita dalla restituzione di un manufatto che si presentava generalmente rivestito da spessi strati di depositi scuri; inoltre, avevamo pochissime informazioni su come la facciata si presentasse, in realtà, al tempo della sua edificazione, protrattasi peraltro per almeno due secoli. Allo stato attuale degli studi, la finitura originaria di queste fabbriche rimane in parte un mistero, visto che i luoghi comuni su questa architettura, e in generale sulla cultura medievale, sopravanzano di gran lunga la conoscenza oggettiva dell’epoca e della sua arte. Una circostanza unica. Troppo spesso si procede asportando dalle superfici tutto ciò che si trova giustapposto al marmo di costruzione, con il rischio di sacrificare quelle finiture più raffinate e delicate, particolarmente soggette al degrado, alle quali era affidata in buona parte l’immagine concreta degli edifici. L’istruttoria che generalmente si avvia sulle opere medievali e dell’antichità classica rende frustrante la ricerca necessaria a orientare i risultati del restauro, perché sconta la mancanza di documenti certi, data la loro lontananza nel tempo, o viste le vicende degli archivi, o semplicemente perché allora molte testimonianze erano affidate alla trasmissione orale. Tuttavia, nel caso della facciata del Duomo di Siena, ci siamo potuti giovare di una circostanza forse unica al mondo. Intorno al 1870, molte statue e molte porzioni della facciata vennero rimosse e ricoverate all’interno, senza subire una pulitura, dunque senza che il loro aspetto e la loro materia venissero sostanzialmente alterati. Nel museo dell’Opera del Duomo, proprio accanto alla cattedrale, sono a tutt’oggi visibili i frammenti rimossi, che come per effetto di una macchina del tempo, testimoniano quale fosse la condizione della pietra alla vigilia dell’era industriale, quando ad annerire il cielo della Toscana erano soltanto il fumo dei camini e la terra strappata dal vento a quelle colline dalle quali i pittori di tutto il mondo rubavano le ocre e le ombre per i loro affreschi e per le loro tavole. Lo stato di integrità e l’antichità stessa di queste porzioni della facciata costituiscono, dunque, il documento più vicino all’aspetto trecentesco della cattedrale: sulle sculture, come sulle guglie di pietra, si ammira una pellicola dorata che lascia intravedere ogni finitura della lavorazione della pietra, impreziosendola però di una «pelle» quasi trasparente, assimilabile alle vernici o alle lacche con le quali i pittori finivano i propri dipinti. La sensibilità dei restauratori ottocenteschi, o semplicemente la loro maggiore vicinanza al mondo in cui si erano prodotti quei capolavori scultorei e architettonici, aveva sconsigliato la rimozione di quelle pellicole, un motivo sufficiente per suggerirci di non procedere, con il nostro intervento, oltre quella soglia visiva e materiale: decidemmo allora, in pieno accordo con la committenza e la direzione dei lavori, di mettere a punto una tecnica di pulitura che invece di scoprire il marmo, come era avvenuto nel restauro del portale sinistro alla fine degli anni ’90, prefigurando un destino cui avremmo dovuto piegare anche il resto dell’intera facciata, puntasse a salvaguardare queste pellicole dove ancora esistevano, compatibilmente con l’esigenza di fermare il disfacimento dei marmi più corrosi. La procedura si faceva decisamente più complessa, dunque più lenta: per un intero anno, alternando il consolidamento della pietra con lavaggi insistiti di sola acqua, abbiamo portato alla luce le pellicole colorate che anche sulla facciata si intravedevano al di sotto degli strati neri, formati dai depositi dello smog industriale e dai gas di scarico delle automobili, che fino agli anni ’80 venivano parcheggiate proprio accanto alla cattedrale. La presenza di pellicole sulle pietre era già stata osservata sui marmi del Partenone nel 1853 da Liebig, che spiegò la formazione della patina come conseguenza dell’azione prolungata di licheni nei secoli. Solo molto più tardi, nel 1955, nel corso del restauro dell’Arco di Costantino a Roma, furono di nuovo analizzate a fondo alcune pellicole che ai restauratori sembrarono residui di antiche verniciature; ma, richiamandosi agli studi di Liebig, anche in questo caso la presenza di ossalato di calcio monoidrato fu messa in relazione con l’azione dei licheni, presenti in grande quantità sui monumenti. Da questo momento in poi, e specialmente da quando, negli anni ’70, si prestò più attenzione al degrado dei monumenti classici in ambiente inquinato, il problema della genesi delle pellicole venne affrontato da più punti di vista, dando luogo a dispute tra scienziati, archeologi, architetti e restauratori, che approdarono a diverse opinioni sull’opportunità di conservarle o meno. Ma il fatto stesso che la questione fosse affrontata limitandosi a discutere sulla composizione delle pellicole, e dunque decontestualizzandole dal loro valore artistico e dalla loro funzione documentaria, non ha giovato né a una più approfondita conoscenza della storia dell’arte né alla conservazione dei monumenti, e ha fatto sì che nella pratica comune esse venissero asportate per esibire un marmo nudo, che senza alcun fondamento nella documentazione si riteneva depositario dell’immagine che avevano le fabbriche medievali. Così, una inesorabile campagna di spellamento dei marmi medievali ha trasformato le cattedrali e i battisteri di tutta Italia in opere cimiteriali caratterizzate dalla fredda nudità dei materiali costitutivi. Nel restauro del duomo di Siena, invece, la valorizzazione delle pellicole superficiali, ripulite dalle croste nere che si erano depositate in superficie, ha rivelato la loro natura variegata e molto significativa per la comprensione della facies originaria del monumento: in molti punti, queste pellicole incorporavano una lamina d’oro che impreziosiva la facciata della cattedrale, rendendola simile a una immensa opera di oreficeria. In altri punti, l’oro era imitato con pigmenti gialli stesi su una base di bianco di piombo, come si usa fare per le tavole medievali destinate ad accogliere i colori a olio o le stesse dorature a lamina. Altri marmi come il rosso di Gerifalco, per sua natura di tono pallido ed esangue, erano finiti con uno strato di colore rosso vivo che lo faceva contrastare con i marmi bianchi, verdi e le strisce dorate. Gli stessi conci di pietra bianchi della grande ghiera del portale centrale presentano tracce di un decoro a rombi, anch’esso in origine dorato, che arricchiva l’alternanza tra blocchi di pietra bianchi e verdi. Sempre nelle ghiere dei portali, con immenso stupore della squadra impegnata nel restauro, sono emerse sulle fasce bianche alcune strisce dipinte di giallo, il cui scopo era chiaramente quello di sottolineare l’andamento acuto dei grandi archi. Nulla di quanto ci si evidenziava mano a mano che andavamo avanti nel restauro somigliava all’immagine dei marmi nudi che ci restituisce tanta architettura restaurata di recente, dal freddo raggelante delle facciate dei monumenti di campo dei Miracoli a Pisa alla Loggia del Bigallo a Firenze, che dopo le puliture degli anni Ottanta e Novanta sembrano intagliate negli ossi di seppia. Metodi di intervento devastanti. La scoperta fatta a Siena, rivelava come l’impostazione «tecnicistica» riservata alla questione delle pellicole fosse stata disastrosa, perché aveva portato a asportare la finitura originaria dei monumenti, affidata a verniciature trasparenti o policrome o dorate, che comunque prevedeva una leggera velatura del marmo. L’oro e i colori che oggi impreziosiscono parte della facciata della cattedrale di Siena non hanno soltanto una valenza estetico-documentaria; impongono una riflessione urgente sulla deriva del restauro in Italia, rendendo intelleggibili a tutti questioni che per anni sono state confinate all’interno di un ambito troppo specialistico. Non può sfuggire, infatti, che se il mercato immette una imprenditoria dequalificata nel restauro, il restauro si adegua semplificando le sue procedure. È così che la pulitura di una facciata architettonica medievale invece di essere considerata un complesso intervento critico su un testo saturo di storia e di indizi estetici, si riduce alla brutale rimozione di tutto quanto copre il marmo, nelle mani di imprenditori che affrontano con uguale disinvoltura una cappella cimiteriale novecentesca e la facciata di una cattedrale medievale, finendo per renderle inquietantemente simili. D’altro canto, questo processo si è sviluppato anche perché una legge ormai inadeguata affida la direzione e il controllo dei restauri a ispettori delle Soprintendenze, a storici dell’arte, a architetti e a archeologi, che per la loro formazione nulla sanno della complessità del restauro e delle sue procedure; e però si ostinano a difendere gelosamente le loro prerogative di controllo, mentre i monumenti ne pagano le conseguenze. Ma la causa principale dei danni derivati dai recenti restauri di architetture medievali sta senz’altro nella incapacità del ministero dei beni culturali di fornire un indirizzo unitario alle procedure di intervento su tutto il territorio nazionale, lasciando incongruamente che mentre sul Colosseo si rispettano le finiture brune della pietra, sulla facciata della cattedrale di Ferrara si scarnifichi una pietra che in origine fu quasi certamente policroma, e – possiamo azzardare oggi che Siena lo testimonia – dorata con lamine metalliche. Organi statali in conflitto tra loro. Con la fondazione dell’Istituto Centrale del Restauro nel 1939 ci si proponeva, appunto, di fissare dei criteri univoci a guida dei restauri distribuiti in tutta Italia, ma le Soprintendenze gelose della propria autonomia o, più esplicitamente, del proprio potere territoriale, ostacolarono in ogni modo questo obiettivo. Il caso più eclatante di una tale lotta intestina tra organi dello stato resta l’invenzione di una nuova metodologia di intervento per il restauro da parte dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze negli anni ’70, dopo la sua trasformazione in scuola; un provvedimento che equivaleva all’aperta sconfessione dell’Istituto Centrale, con la fatale conseguenza di ridurre la sua autorità di controllo sui restauri italiani. Forse oggi, le possibilità di confronto offerte dal restauro della cattedrale di Siena, serviranno anche a mettere sotto gli occhi di tutti quale sia l’oscillazione dei risultati possibili, a seconda degli interventi che si decidono di attuare sul nostro patrimonio artistico.
Sfilano le contrade, si inaugura il restauro
La fine dei lavori di recupero del monumento si trasforma in una grande festa cittadina, sotto il nome «Scopriamo la Facciata» (oltre alla facciata principale del Duomo di Siena, c’è anche quella del Battistero di San Giovanni da ri-svelare). Oggi, giorno dedicato a Sant’Ansano, si terranno a partire dalle 17 le celebrazioni per l’eccezionale vernissage, alla presenza delle istituzioni e di tutte le diciassette contrade della città. La cattedrale rimarrà aperta e sarà illuminata in via straordinaria sino a mezzanotte. Dalle 17.30 interventi di Mario Lorenzoni, rettore dell’Opera della Metropolitana, Maurizio Cenni, sindaco di Siena, Giovanni Bulian, soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio per le province di Siena e Grosseto, e Danielle Mazzonis, sottosegretario ai beni culturali.
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