"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

PK – il mito #2

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È l’iniziativa editoriale dell’anno e non potevo proprio evitarla: la riedizione integrale in ordine cronologico delle avventure di Paperinik ad opera della Gazzetta dello Sport, in ben trentasei volumi settimanali al termine dei quali avrò l’ennesimo ciclopico problema di spazio (e chi non è mai stato a casa nostra, fidatevi, non può apprezzare la portata di questa affermazione). Non mi si fraintenda: io non sono una fan sfegatata di Paperinik. O meglio, lo sono, come mi strapperei il reggiseno per Indiana Pipps, ma sono una fan del Paperinik classico, quello che aveva scoperto il diario di Fantomius a Villa Rosa, quello con gli stivaletti a molla e l’ascensore nascosto nell’armadio, che usciva a mezzanotte e ritornava a casa, stanco, in tempo per farsi dare del fannullone dai nipotini. Il Paperinik di PK invece è un Paperinik moderno, marvelliano, fantascientifico, che si muove con sullo sfondo una paperopoli divenuta New York da che era Milanofiori, un Paperinik assistito da armi super-tecnologiche non più fornite da Archimede ma eredità cibernetica semi-senziente ottenuta da un altro predecessore, ben lontano da un Fantomius ormai vecchio. Vi piace? Non vi piace? Personalmente confesso che non mi piace. Ma questi volumetti della Gazzetta, pur non essendo eccessivamente didascalici o contenere un numero strabiliante di contenuti speciali, sono sufficientemente ben fatti da mostrarmi perchè alcune cose non mi piacciono e, soprattutto, come siamo andati vicini a che mi piacessero.

« Di giorno questa è la mia città. Di notte questa città è mia. »

Partiamo ad esempio dalla Ducklair Tower, il nuovo quartier generale di PK che in questo reboot di avventure sostituisce anche Villa Rosa come luogo di nascita del supereroe mascherato. Costruita dal suo predecessore, il geniale milionario Everett Ducklair, la torre è virtualmente posseduta da zio Paperone che ha affidato a Paperino il ruolo di uscere, ma è di fatto sede delle operazioni di Paperinik come altre torri lo sono di altrettanti supereroi, dal Baxter Building dei Fantastici Quattro alla Stark Tower di Iron Man e dei suoi Vendicatori.

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È un edificio dal design tutto sommato banalotto, nonostante il nautilus piazzato sulla cima, i gargoyles e le decorazioni che strizzano un po’ l’occhio al Chrysler Building di New York. Sarà che da architetto atipico non ho mai avuto particolare passione per i grattacieli. Sarà che alla Stark Tower ho sempre preferito la Avengers Mansion. Ma quanto sarebbe stata molto più bella la Ducklair Tower se fosse stata sviluppata da uno dei bozzetti preliminari pubblicati in appendice al volumetto? Vogliamo parlare di quanto sarebbe stata incredibilmente più affascinante se avesse avuto davvero quella forma semi-diroccata da catapecchia di 150 (+1) piani? O se gli interni fossero stati sul serio quel misto medieval-fantascientifico tra catacomba e laboratorio dello scienziato pazzo? C’è un motivo se le parti migliori di questo volume sono nella seconda storia, quando assumono quel sapore un po’ esotico con il ritorno di Everett Ducklair dal suo ritiro nel monastero di Dhasam-Bul, nel cuore dell’Asia, un paese che francamente sembra un po’ il pianeta di Dorina, la gemella extraterrestre di Minni (una delle più belle ambientazioni extra-topoliniane che il ricordi).

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Anche i nuovi comprimari devo dire che non mi entusiasmano. Uno, l’intelligenza artificiale che fa da guida e maggiordomo a Paperinik, mi lascia assai freddina, tanto per cominciare. Non ha la verve di Jarvis (parlo di quello del film, ovviamente) né fa le veci del Bob di Dresden, è una figura la cui semi-corporeità non aggiunge nulla e che, francamente, ha molto a che vedere con Worldmind dei Nova Corps. Solo la giornalista, con il senno di poi, ha una qualche potenzialità, ma in queste prime tre storie pubblicate nel volume 2 (Ombre su Venere, Due e Il giorno del Sole freddo) rimane un personaggio sterile con appena una strizzata d’occhio a quello che sarà (la cioccolata calda con Camera 9).

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Nonostante ciò, e nonostante le perplessità intrinseche alla serie, PK rimane un esperimento interessante con cui vale la pena familiarizzare o recuperare, e questi volumi sembrano un ottimo modo per farlo: in appendice, oltre alla già citata sezione sulla Ducklair Tower, un’intervista a Claudio Sciarrone in cui ci narra le contaminazioni e le influenze che sono approdate su PK, dal mantello di Spawn a Ghost in the Shell e Akira, fino a modelli decisamente ambiziosi come i modelli di Giger per Alien, passando per i fumetti americani e l’universo Image. Sembra quasi che, prendendosi (troppo) sul serio, sceneggiatori e disegnatori di PK avessero tentato di fare un’operazione non troppo dissimile da Rat-Man. Ma di questo, magari, parlerò un’altra volta.

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