Lo confesso, ero scettica. Di quello scetticismo squisitamente preconcetto che tendenzialmente mi fa evitare i film svedesi (quando non cercano di fregarmi travestendosi da film inglesi, vedi l’ultimo Tinker, Tailor, Soldier, Spy con Gary Oldman), i film con i bambini e, per l’appunto, i film di Woody Allen. Non concorreva ad invogliarmi la locandina qua sopra, o il fatto che ci fosse Owen Wilson, un uomo che ho sempre considerato totalmente e irreparabilmente incapace di articolare un’espressione che non sia grottesca, giusto per non voler usare con leggerezza il termine recitare. E invece, sorpresa! Non solo Owen Wilson recita, ma l’intero impianto del film non è completamente e irrimediabilmente inutile. L’intreccio è, nella sua semplicità, piuttosto complesso e sfaccettato: prossimo al matrimonio con la bella Inez, Gil è insoddisfatto della propria carriera, nonostante i successi riscossi come sceneggiatore, e sta tentando di dare una svolta alla propria professione con un romanzo il cui protagonista, d’impronta semi-dichiaratamente autobiografica, è un uomo che si circonda dei ricordi di un tempo andato e lavora in un negozio di memorabilia. Sorda a questa crisi esistenziale, la futura sposa (Rachel McAdams, bionda e irriconoscibile rispetto alla sensuale e fatale Irene Adler) si culla in un sogno differente: un marito di successo com’era il Gil sceneggiatore, una casa a Malibù, dei genitori finalmente soddisfatti della sua scelta. Non le piace camminare nella pioggia e trova folle l’idea di trasferirsi a Parigi, mentre le piace molto la saccenza pedante e sicura di sé dell’amico Paul (Michael Sheen, quello di Underworld). Poi avviene l’inaspettato: mezzo ubriaco e solo, perduto tra le strade notturne della capitale francese, Gil viene abbordato da un’auto vintage da cui un gruppo di persone allegre lo invita a salire, e alla festa in cui arriva, l’uomo al pianoforte assomiglia terribilmente a Cole Porter (Yves Heck, che effettivamente un po’ gli somiglia) e una giovane coppia sembra condividere senza saperlo un caso di omonimia con Zelda e Francis Scott Fitzgerald, rispettivamente interpretati da un’irriconoscibile Alison Pill, la Maud dei Pilastri della Terra, e Tom Hiddleston. Sì. Proprio Loki.
Ciò che nel film rimane sorprendente, come un piccolo miracolo, è il procedimento logico del tutto naturale in virtù del quale il protagonista arriva a credere a quello che vede: si trova negli anni ’20, quella che lui considera l’epoca d’oro di Parigi se non dell’umanità intera, al cospetto di uno dei suoi idoli letterari, e di festa in festa l’esuberante e volubile Zelda lo conduce al cospetto dell’uomo che cambierà la sua carriera, uno straordinario Corey Stoll nei panni di Ernest Hemingway, virtuosista nella sua interpretazione di uno dei personaggi che gode in assoluto della miglior sceneggiatura all’interno del film. Impossibile non amarlo. Come è impossibile non amare la grandissima Kathy Bates nel ruolo di Gertrude Stein, o la deliziosa Marion Cotillard nel ruolo di Adriana, o l’istrionico Adrien Brody nei panni di Salvador Dalì. Ogni mattina Gil ritorna al suo albergo e alla sua vita scricchiolante. Ogni notte attende il suo passaggio verso il passato, che puntualmente si presenta, dove si innamora di Adriana e trova gli strumenti per correggere il romanzo. Ma è possibile ingannare tutti per un certo periodo di tempo, e forse è possibile ingannare persino alcuni per sempre, ma non è possibile ingannare Ernest Hemingway: il passato va a gettare nuova luce sul presente e, di riflesso, su di sé. I problemi arrivano proprio a questo punto. Nel tentativo di dimostrare che in fondo un’epoca d’oro non esiste e che ogni presente ha un suo passato idealizzato, Woody Allen ha l’idea geniale di innestare sul primo meccanismo un meccanismo analogo, creando una struttura di scatole cinesi, ma sembra trovarsi a corto di tempo, o di risorse, e imbastisce un finale un po’ affrettato, immaturo, almeno nella sezione narrativa di Adriana. Ed è un vero peccato.
Degne di nota la deliziosa piccola parte di Carla Bruni e la colonna sonora, anche nelle tracce originali di Stephane Wrembel. E la locandina, ovviamente. Non quella qui sopra, ma quella qui sotto.

KPIs and Gaming the Metrics
Earlier this week I wrote about KPIs and how we’re using them wrong, l but I fear I left something out, which is how KPIs are used in education. Nowhere is the distortion of goals by poorly chosen KPIs more visible than in the classroom.
2 Comments
SunnySideOfTheStreet
Posted at 10:38h, 14 AprilCiao! Bellissima recensione, complimenti! A me questo film è piaciuto molto proprio per il messaggio del “non esiste l’età dell’oro”, che è una cosa che ho sempre pensato. Anch’io ho creduto che il finale fosse un po’ affrettato, ma comunque non rovina il film. Rachel Adams era la stessa ragazza di “Mean girls”, Regina! Pare incredibile, eh? Io ho solo un’altra osservazione: ma perché i distributori italiani hanno voluto lasciare il titolo in inglese? “Mezzanotte a Parigi” sarebbe stato altrettanto piacevole&suggestivo!
shelidon
Posted at 11:11h, 14 AprilSai, pare che i titoli in italiano ormai siano démodé, ormai sembra traducano solo i titoli dei cartoni animati o dei film per bambini, non ti so proprio dire il motivo. Farà parte di quella strana peculiare vergogna che noi italiani nutriamo ogni tanto nei confronti della nostra lingua? O forse è solo perché l’esotico vende sempre meglio. Chissà.
Grazie dei complimenti (e della visita), comunque.