"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

Azuma

Dal Corriere di oggi. (scusate la segnalazione senza commento, ma gli impegni incombono).

Azuma, il kamikaze che si fece scultore
Da Tokio a Milano. É trascorso mezzo secolo da quando Kengiro Azuma è approdato all’Accademia di Brera per seguire i corsi di Marino Marini, di cui, poi, dal 1960 al 1979, sarà assistente. Una monografia di Apollonio sull’artista toscano, sfogliata nella libreria universitaria di Tokio, cambia la sua vita. I cavalli di Marini gli ricordano quelli dei palazzi imperiali e delle tombe cinesi. Così, assieme alle Pomone, essi diventano il punto di riferimento per le prime figure femminili. Kengiro decide di conoscere lo scultore italiano. L’occasione? Una borsa di studio del nostro Governo per Milano, Accademia di Brera. Laureato da circa un lustro, assistente di Atsuo Imaizumi (storico e vicedirettore del Museo nazionale d’arte moderna), sino ad allora Azuma, come buona parte dei giovani artisti del Sol levante, guarda all’Europa, al rinnovamento della tradizione (Rodin e Bourdelle, per esempio), anche perché fra i suoi insegnanti ci sono Kazuo Kikuchi (allievo di Despiau) e Toyoichi Yamamoto (discepolo di Maillol). Ha 30 anni, Kengiro, ma ha avuto una vita intensissima. A 17, lasciato il liceo, entra in Marina: corsi per piloti di aerei siluranti, che, finiti i siluri, si trasformano in kamikaze. Gli insegnano che l’imperatore è un dio per il quale è un onore immolarsi. Con altri volontari, Azuma ha un addestramento speciale; poi viene destinato a Okinawa, nelle Filippine. «Il mio amico più caro si chiama Toshio Hida – racconterà -. Siamo sovraeccitati da quello che ci inculcano: è comprensibile a 19 anni. Il calendario decide le partenze dei kamikaze. Per evitare ripensamenti viene fornito il carburante per sola andata. A Toshio tocca di partire una settimana prima di me. Quattro giorni dopo il suo sacrificio, la guerra finisce. Sono disorientato, mi sento vuoto dentro. E non ho più fede in nulla. L’imperatore non è un dio, ma uno come noi. Ho bisogno di credere, di riappropriarmi di qualcosa di spirituale: l’arte? Avevo vissuto in una famiglia di artigiani del bronzo. Penso che l’Accademia può far rinascere in me i valori dello spirito». Stavolta la scommessa non si gioca con la vita, ma con la reputazione. Buona volontà e testardaggine vanno di pari passo. Alla fine, Kengiro ce la fa. «Cerca la tua strada, non imitarmi – gli suggerisce Marini -. Riscopri il concetto di forma e spazio, tenendo conto degli insegnamenti buddisti». E Azuma, che intanto frequenta Lucio Fontana, ritrova se stesso, evitando che il «marinismo» possa danneggiarlo. Del maestro toscano capta l’humus; dell’italo-argentino, la geometria. Il ritmo, però, l’impronta di triangoli, cubi, spirali, coni e quant’altro, sono totalmente suoi. Così come la luce e i riflessi calati in un’atmosfera orientale. Mezzo secolo, si diceva: cinquant’anni di vita italiana cui se ne aggiungono trenta, precedenti, del Giappone. Ed ecco che per ricordare i suoi 80 anni, Luciano Caramel ha curato un’antologica alla Fondazione Calderara di Vacciago di Ameno, nel Novarese (aperta sino al 15 ottobre): dai lavori figurativi del 1953, a quelli astratti del 2006. Bronzi (spesso affiancati dai disegni preparatori) e installazioni, distribuiti fra casa, cortile e giardino. I lavori all’aperto ripropongono, sul campo, il raffronto arte-natura, degli anni 70. Piante e metallo si integrano. Racconti in giardino, dunque, o versi («La scultura è come un canto che avverto dentro») danno vita ad una sorta di recitativo con gesti e movimenti appena percettibili degli attori del teatro Nô. L’azione nello spazio interessa uomini, uccelli, alberi, foglie, canne. Ma il ricordo che ne rimane è incorporeo, immateriale. Elementi estetici e spirituali testimoniano della capacità di Azuma a far convivere le proprie radici orientali (scuola Zen) con la cultura europea. Fra le opere più suggestive, le piccole Gocce. Gocce di pioggia. «Io dico piove, Che cos’è piove? – si domanda Azuma -. Può essere molti modi di piovere. Ecco che dare forme diverse alla parola piove unisce, oltre ai diversi significati che abbiamo appreso mentalmente, diverse sensazioni visive che insieme ci forniscono una più completa percezione dell’evento». Ed ecco che la pioggia viene rappresentata con una serie di piccole e grandi sculture a forma di goccia, disposte accanto o l’una sull’altra, costituendo una colonna senza fine, tesa verso le nuvole. Alla fine, l’artista-poeta sente, davanti allo specchio, «il canto della goccia d’acqua».

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