Pigmalione

Ho appena comprato questo interessante libro (Victor I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock) e guarda un po’ che ti esce oggi sul Manifesto. E’ una delle poche volte che capita, anche se spesso cito i suoi articoli: io e lui in fatto di libri non abbiamo spesso gli stessi gusti. […]

D.G. Rossetti, Pigmalione e Galatea

Ho appena comprato questo interessante libro (Victor I. Stoichita, L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock) e guarda un po’ che ti esce oggi sul Manifesto. E’ una delle poche volte che capita, anche se spesso cito i suoi articoli: io e lui in fatto di libri non abbiamo spesso gli stessi gusti. In ogni caso, il libo sembra interessante anche se piuttosto impegnativo in alcuni passaggi. Al momento, prr motivi miei connessi all’appena terminato capolavoro critico di Benjamin, ho letto solo il sesto capitolo che riguarda il rapporto tra fotografia e scultura, oltre naturalmente ad aver guardato le figure come il mio solito.

Sotto il segno di Pigmalione – Massimo Carboni
Scultore d’inarrivabile abilità, Pigmalione, dopo avere preso atto dei troppi vizi e difetti delle donne, ne scolpisce una tutta per sé, un simulacro di cui si innamora, tanto che gli dèi, magnanimi, gli infondono la vita. A questa storia, riportata da Ovidio nelle Metamorfosi, dedica uno studio acuto e molto documentato Victor Stoichita, storico dell’arte tra i più fecondi e interessanti nel panorama internazionale, già noto al pubblico italiano per L’invenzione del quadro, per la Breve storia dell’ombra e per L’ultimo carnevale (tutti pubblicati dal Saggiatore). Se Deleuze o Baudrillard riflettono sulla condizione moderno-contemporanea del simulacro, Stoichita conta invece di restituircene, più che la storia, la genealogia, come del resto recita il sottotitolo di questo suo libro L’effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock (Il Saggiatore, pp. 286, euro 25). Stoichita raggiunge il suo scopo collocandosi all’interno della corrente i studi oggi prevalente nella ricerca scientifica internazionale, quella posta all’incrocio tra visual studies e antropologia dell’immagine, secondo cui l’opera d’arte non possiede più una funzione paradigmatica nell’immaginario perché entra, invece, a far parte di una più ampia, molteplice e tipologicamente diversificata produzione di immagini. La novità nella rilettura del mito che Stoichita propone è sostanzialmente duplice, e riguarda due particolari del racconto di Ovidio spesso sottovalutati dai commentatori. Pigmalione scolpisce la statua in avorio, e la materia è importante, perché l’avorio – per il suo colore e per la sua durezza – evoca l’osso (elemento che già fa parte del corpo umano), dunque è l’osso che si tramuta in carne e sangue. Ma scolpire in avorio non è possibile senon lavorando su dimensioni ridotte, dunque ciò che Pigmalione costruisce è un «modellino» che sta tra la bambola (in terracotta, nell’antichità) e quelle statuine che si usavano collocare su stele innalzate in memoria delle fanciulle morte giovanissime. E qui l’evocazione funebre si intreccia al carattere propiziatorio, talismanico, votivo. Un doppio passaggio presiede quindi all’effetto pigmalionico: quello dall’osso freddo e levigato alla carne calda e palpitante non sarebbe sufficiente a dare piena vita «naturale» alla strana creatura («donna» con un corpo e un’anima, e nondimeno fantasma) se non si verificasse magicamente anche l’altro passaggio, quello da un oggetto minuscolo a un doppio di dimensioni umane. Queste puntualizzazioni di Stoichita non sarebbero, tutto sommato, così importanti se non preludessero a una apertura interpretativa cruciale. Narciso (punito dagli dèi) è un mito dell’immagine; Pigmalione (premiato dagli dèi) è un mito dell’opera. In fondo, sono entrambi dispositivi del desiderio: ma il primo si innamora della propria effige riflessa in uno specchio d’acqua naturale; il secondo costruisce un corpo, e questo artefatto non «imita» nulla di specifico: è appunto un simulacro, un’immagine-cosa che esiste e si proietta nel mondo producendo molteplici effetti. Pigmalione si innamora della propria opera, la carezza, la palpeggia, ne accende i rossori, dal senso della vista passa a quello del tatto, e la statua si anima. Ma non era questo il primitivo intento del suo autore; il fatto è che egli si trova superato dalla sua stessa arte. Si tratta dunque di un autoinganno, perché Pigmalione scolpisce per proteggersi dal desiderio (irritato per i vizi dell’indole femminile), ma è proprio l’opera che realizza a scatenare la sua libido e a diventare unico oggetto delle sue proiezioni fantasmatiche. Un po’ come l’uomo che soccombe alla tecnica da lui stesso creata, allucinato dalla propria opera. Destreggiandosi con invidiabile padronanza attraverso una sterminata bibliografia trilingue (sostanzialmente anglosassone, francese e tedesca), appostato all’incrocio tra iconologia e letteratura artistica, Stoichita segue l’«effetto Pigmalione » attraverso i secoli, soffermandosi particolarmente sul Rinascimento italiano (la storia di Pippo del Fabbro modello che diventa statua, raccontata nelle Vite del Vasari) e sul Sette-Ottocento francese, da Diderot a Zola, in più considerando il ruolo della fotografia. Senza dimenticare, lungo il percorso, il Roman de la Rose, il Cavalier Marino e il Racconto d’inverno di Shakespeare. Per arrivare a Hitchcock: il grande Hitchcock di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), in cui Scottie-James Stewart-«Pigmalione» cerca di far rivivere la misteriosa, raffinata Madeleine nel «doppio» Judy-Kim Novak, una commessa ordinaria e volgarotta ma straordinariamente somigliante all’amore perduto. Alla fine – dopo tanti sforzi da parte di Scottie e tanta pazienza da parte di Judy – la metamorfosi si compie nella camera dell’Hotel Empire: in una luce verdastra tra il teofanico e lo spettrale, Judy è Madeleine. E.Scottie – esattamente come il suo «antenato» mitologico – dalla pura vista passa alla tattilità e abbraccia la sua «creazione». Ma non basta, perché il pirotecnico intreccio tra simulacri, doppi e multipli si complica. Da una parte, lo stesso Hitchcock plasma come Pigmalione una giovane e inesperta Kim Novak chiamata a sostituire Grace Kelly, quasi arte e vita (di nuovo) si specchiassero a vicenda. Dall’altra, un duplice, contestuale riferimento va alla ripetizione senza originale giocata dalle icone pop di Andy Warhol, e – negli stessi anni di Vertigo – all’invenzione e all’enorme diffusione della bambola Barbie, altro simulacro contemporaneo. Frase-chiave di questa ultima «stazione» del percorso di Stoichita: «la situazione è moderna ma la posta in gioco antichissima ». Non si poteva dire meglio. Solo difetto del libro, non particolarmente imputabile all’autore, la mancanza di un indice dei nomi, strumento indispensabile a maggior ragione per un’opera come questa, ricca di particolari e di motivi storico-tematici.

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