La domenica sportiva

Era una bella giornata di sole, ieri, a Piacenza, dove i Rams Milano (usciti vittoriosi dalla scorsa partita), hanno incontrato la squadra locale dei Wolverines. E che partita è stata! In vantaggio fino alla fine del secondo quarto, con incredibile tripletta del nostro rookie nr 31. E poi? Eh, e poi, e poi… Poi qualcosa è […]

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Era una bella giornata di sole, ieri, a Piacenza, dove i Rams Milano (usciti vittoriosi dalla scorsa partita), hanno incontrato la squadra locale dei Wolverines.
E che partita è stata! In vantaggio fino alla fine del secondo quarto, con incredibile tripletta del nostro rookie nr 31.
E poi?
Eh, e poi, e poi… Poi qualcosa è successo, qualcosa che ha freddato la nostra squadra mentre gli ottimi padroni di casa hanno potuto riprendere in mano la partita, portarsi in vantaggio e confermarsi gli imbattuti campioni del girone.
Tuttavia c’era qualcosa nell’aria, da ben prima del suddetto increscioso incidente. La tifoseria era divisa, su spalti pericolanti: i genitori da una parte, alcune ragazze di pessimo umore da quell’altra. Disattenti, poco lucidi, abbiamo persino mancato un touchdown.
A fine partita, tra l’amarezza per l’occasione persa e dopo aver reso omaggio ai meritevoli campioni di casa, ho finalmente compreso il perché del silenzio e del malumore.

E qui è necessario che io mi prenda un attimo per farvi una confessione. Venite vicini, che non mi va di urlare.
Io non leggo gli articoli del coach.
Mi avete sentito tutti, anche là in fondo?
Ok, lo dirò più forte.
IO NON LEGGO GLI ARTICOLI DEL COACH.
E perché non li leggi, si domanderanno i miei piccoli lettori.
Perché non ti interessa la squadra, forse?
No.
Non li leggo, perché gli articoli del coach non parlano della squadra. Sono i pensieri di una persona riguardo a quella squadra, e tutto sommato mi interessano fino a un certo punto.

Non avevo quindi alcuna idea di ciò che il coach avesse scritto nel suo “articolo” di giovedì scorso.
252 parole, 1503 caratteri che lì, in bella vista, proprio nell’intestazione, si scusavano pubblicamente per “alcuni atteggiamenti poco sportivi dei nostri tifosi”.

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Mi trovo quindi a dover rispondere al coach, in questo amaro post partita. E dato che sul sito della squadra non esiste uno spazio di dialogo, lo faccio dal mio blog personale (forse ha presente, coach, un blog personale si usa quando si desidera esprimere un parere personale che non necessariamente coincide con quello di un gruppo di persone).

Caro coach Le scrivo, quindi, per invitarLa a non permettersi mai più certe asserzioni e certi giudizi di merito che non solo sono offensivi ma che peraltro non rispondono, affatto, allo spirito che la tifoseria mantiene nei confronti dello sport. La tifoseria che ho l’onore di rappresentare, quest’anno addirittura ufficialmente con l’onere del GameDay.
Ma non è di questo che voglio parlarLe, coach, perché mi starei giustificando a nome dei miei tifosi e i miei tifosi sono adulti perfettamente in grado, nel caso, di esporre il proprio pensiero.
Mi sento tuttavia di prendere su di me personalmente qualunque accusa che venga rivolta a loro come gruppo, e confesso che dopo il pubblico sgarbo ricevuto sono stata fortemente tentata di chiamare uno sciopero della tifoseria.
Forse ha presente cos’è uno sciopero: è quando un gruppo di persone sceglie di manifestare il proprio dissenso in modo pacifico (grazie, articolo 40) nella speranza che l’assenza del servizio normalmente offerto venga notata e sia d’aiuto per un maggior riconoscimento del servizio offerto.
Ho deciso di non farlo.
E non perché la tifoseria, non essendo pagata, in teoria non può fare sciopero.
Ho deciso di non farlo solo perché – per citare le parole di una delle mie cheering ladiesnon sarebbe giusto nei confronti della squadra.
E noi, mi creda, abbiamo ben chiaro che la squadra non è Paolo Crosti.

Paolo Crosti però è il coach, gli riconosciamo questo ruolo di guida, e sappiamo che gli piace parlare di valori.
Bene, Paolo, parliamo di valori: i valori importanti di una squadra, coach, sono molti e Lei certamente ne è esperto. Il principio cardine però è uno, uno soltanto.

United we stand.

 

Quando la squadra sbaglia, sbaglia tutta insieme e nessuno si deve permettere di puntare pubblicamente il dito.
I panni sporchi si lavano in casa, nello spogliatoio, nelle sale di riunione.
E quando si ricevono accuse dall’esterno – specialmente accuse che non si è in grado di verificare – la prima reazione dev’essere quella di concedere ai propri compagni il beneficio del dubbio e la possibilità di spiegarsi. L’esposizione al pubblico ludibrio è avvilente per chi la subisce e per chi vi assiste, ma soprattutto porta ignominia sulla testa di chi la perpetra.
Vergogna.

 


 

PS: La invito a non rispondermi pubblicamente. Qualora sentisse il bisogno di farlo, tuttavia, La prego di avvertirmi. Sa, io non leggo i Suoi articoli.

 

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