Uno degli interessanti articoli del Manifesto di oggi.
Nei ritratti di Tiziano l’ombra dell’io – Federico De Melis
Certo non ci si potrà chiedere, alla fine della mostra sul ritratto cinquecentesco a Capodimonte, «ride o non ride?», come ha fatto il giocondo Veltroni dopo aver gustato Antonello da Messina, come al solito «enigmatico», alle Scuderie. Qua nessuno ride, anzi il massiccio prevalere nei quadri della moda nera spagnola, dentro una delle più tetre regge europee, dà al tutto una qual certa aria da funerale, che contrasta vivacemente con il gioco dei valori pittorici, e innanzitutto la mobilità gonfiante dei ritratti di Tiziano, tra i quali si contano prestiti strepitosi: solo a titolo di esempio il Gentiluomo veneziano di Washington, l’Ippolito de’Medici Pitti, il Benedetto Varchi di Vienna o quel vero abbrivio a Rembrandt che è, con le sue impiastricciature dorate (Tiziano non si peritò di usare, alla fine, persino i polpastrelli), l’Autoritratto da vecchio, di Berlino. Davanti a un’infilata del genere (c’è persino, dal Louvre, il Baldassarre Castiglione di Raffaello) non ce la si sente di sconsigliare il week-end napoletano: la mostra, dal titolo Tiziano e il ritratto di corte da Raffaello ai Carracci, è peraltro ben vestita, al piano nobile di Capodimonte, da un tessuto verde ortica alle pareti su cui, per una volta, non si è risparmiato (la cura è della soprintendenza napoletana; il catalogo, Electa Napoli, euro 45,00).Ma bisogna pur dire che l’argomento ritrattistico nel suo secolo topico, il Cinquecento, meritava di essere trattato con più pregnanza argomentativa, innanzitutto, secondo noi, cercando di individuare alcuni vettori in base a cui far parlare storicamente le opere, che nell’odierna presentazione un po’ troppo da parata galleggiano, invece, abbastanza irrelate. Elementi per un confronto mancato Nell’illustrare il canone ritrattistico del Cinquecento non ci si potrà mai scordare, intanto, che si tratta del secolo della Controriforma, di un evento, cioè, indubbiamente modellatorio quanto a generi artistici, e che, per il ritratto, definisce risolutamente una formula, tutta impostata sulla ’diligenza’ similitudinaria e sull’impersonalità «senza tempo», come formulato nel 1957 da Federico Zeri a proposito di Scipione Pulzone. Ecco dunque un primo discrimine che la mostra napoletana non rende con il dovuto impegno di trasparenza: nella seconda metà del secolo in che cosa consisteva avere le qualità,ma anche le condizioni ambientali, per sottrarsi alle stretture «fiamminghe»della Controriforma, a quel clima, prima, e poi a quel dettato, su cui si incardina la fortuna, anche classistica, del ritratto di apparato? È evidente, qua, che un confronto più ravvicinato tra le prove adulte di Tiziano e questo genere di ritratto presto internazionale, però in mostra pochissimo documentato, avrebbe dato modo, al di là della contemplazione, di valutare appieno la lezione di libertà del veneziano, e il suo genio di sciogliere in pittura le più rigide aspettative di etichetta. Non che Tiziano non fosse pittore aulico, ma lo era in un senso dantesco, il Dante che pretende di dare istituto al volgare letterario immettendolo a corte, come Tiziano con la sua nuova scienza del colore dinanzi a papi, imperatori e re. E poi, la similitudine! Lo si vede lungo i secoli: quando la sensibilità è ardentemente pittorica il ritratto sì che ’somiglia’, ma sempre alla parte in ombra dell’io,mai all’intenzione di grandiosità letteraria del ritrattato: e basti ritornare, proprio qui a Capodimonte, sulle prove che Tiziano trasse dalla corte di Paolo III, e ricordare che poi su questa linea di verità psicologica tizianesca si esprimeranno Velázquez e Goya, tutti e tre concatenati nella storia materiale dei tramandi. Se si fissa l’attenzione sull’olandese Antonio Moro, che del ritratto di corte controriformistico diventerà il sacerdote internazionale, vi si scevera una dialettica ancora più corposa, sulla quale veramente, come consigliava Roberto Longhi, impostare la mostra del ritratto cinquecentesco: Tiziano versus Bronzino. Sull’esempio di entrambi quel sobrio e lucido apparecchiatore di regalità si era fermato a meditare, preferendo alla fine la maniera vitrea del fiorentino, più adatta a essere piegata alle esigenze di rappresentanza ’stemmatica’ che premevano nel grande gioco delle diplomazie europee e delle ideologie religiose. Bronzino, dunque, è l’altro grande protagonista del ritratto italiano del Cinquecento, colui che, negli anni quaranta medicei, volentieri rinuncia agli antichi turbamenti pontormeschi per fissare una maniera glaciale, profilata secondo gli usi di una feroce tradizione del disegno. Ma Bronzino, in mostra, è presente con la sola Eleonora di Toledo di Pisa e con una difficile attribuzione – che si va ad aggiungere ad almeno un’altra, per niente difficile e anzi abbastanza scandalosa, a Pontormo. Mentre Parmigianino, che nell’ideale mostra bipartita andrebbe compreso nell’insieme «Bronzino», risulta di maggior presenza solo perché più presente, e ad altezze vertiginose, nelle antiche collezioni farnesiane di Capodimonte. Non si può fare una mostra conoscitiva su un argomento complicato come il ritratto cinquecentesco, che reclama (si è detto)di essere il più possibile ’tagliato’, partendo dalla necessità, innanzitutto, di scodellare per i gitanti i gioielli di famiglia,magari anche quando non «tornino», com’è il caso della cremosa Danae di Tiziano, la quale sarà pure ’ritratta’ ma rientra manifestamente in un altro genere; e poi allargare integrando quel che manca dal proprio museo, o con prestiti-choc non sempre necessari, o con altri, deboli, che non sempre dicono quel che rappresentano. Più convincente, almeno in quanto documentazione dei pesi in campo se non come ermeneutica dei confronti, riesce invece la scelta di dare il peso che si merita al ritratto ’di realtà’ lombardo, che nel paragone con la solennità cromatica di Tiziano rappresenta il terzo grande asse del problema. Paragone anche sociologico, se dalle altezze coronate del veneziano si scende nei piani bassi del notabilato bergamasco e bresciano, con Moroni e Moretto: e qui, per il primo soprattutto, il problema ritrattistico è quanto conti il coefficiente sociale nella risoluzione di realtà, nel favorire una pittura di valori che data almeno da Foppa e che sboccherà in Caravaggio. Problema curioso e affascinante che fu oggetto, quattro anni fa, di una notevole mostra varesina di Frangi-Morandotti, spinta fino a Ceruti; problema dalle forti connotazioni ideologiche, se il teorico per eccellenza del Cinquecento lombardo, il milanese Lomazzo, dà all’istituto del ritratto un’innegabile destinazione alto-sociale, mentre ignora di proposito che intanto, in provincia e nelle valli, il Moroni si va applicando su ben più scrause tipologie e con un senso di aderenza ottica «a pelle» mai prima sperimentato, come si capisce bene, qua a Napoli, nel gioco delle comparazioni entro la scena generale. Materiali per un’altra mostra possibile La «realtà del ritratto» , parafrasi dalla testoriana «realtà della pittura», è del resto una linfa nel Cinquecento non solo lombardo, e magari selezionando persino dentro la produzione di artisti di tutt’altro intendimento: il Pontormo più naturalista, ad esempio, e tutta una pittura toscana che coltiva segretamente lungo il secolo, nei recessi dell’intellettualismo manieristico, una sua aspirazione alla realtà, poi trascorsa anche in ambito napoletano, con il bellissimo Fabrizio Santafede. Materiali su cui si potrebbe impostare un’altra esposizione, meno generalista di questa di oggi, la quale tuttavia non manca di catturare per il senso di stendhaliana grandiosità barbarica d’un secolo, che il Ritratto, più che altro, restituisce in tutta verità.
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