Sulla privatizzazione della cultura (e sul perché sono combattuta)

Quest’oggi Stefania Brai, responsabile culturale di Rifondazione Comunista, mi raggiunge con questo accorato appello che fa seguito ad una serie di suoi interventi sullo stesso tema e con lo stesso tono (30 maggio 2006, 14 settembre 2006, ecc.). Non è la prima volta che non sono d’accordo con l’onorevole, si veda quando si scagliò contro […]

Quest’oggi Stefania Brai, responsabile culturale di Rifondazione Comunista, mi raggiunge con questo accorato appello che fa seguito ad una serie di suoi interventi sullo stesso tema e con lo stesso tono (30 maggio 2006, 14 settembre 2006, ecc.). Non è la prima volta che non sono d’accordo con l’onorevole, si veda quando si scagliò contro il festival di Roma, ma questa volta sono particolarmente combattuta.

Intanto l’articolo:

Teatro, perché non ci piace la proposta del governo – Stefania Brai

In un recente articolo pubblicato sulla prima pagina di Repubblica Bernardo Bertolucci, parlando della cultura “dimenticata” dalle forze politiche al governo, dice che è arrivato «il momento di chiedere e di pretendere dalla politica un progetto articolatissimo, ambizioso e economicamente molto impegnativo, almeno quanto una delle opere pubbliche di cui abbiamo sentito parlare fino alla nausea…» e conclude con «la rivendicazione del diritto-dovere collettivo-individuale di ognuno di noi di partecipare all’elaborazione di questo progetto…». Credo che il processo che ha portato al programma dell’Unione sia stato proprio questo: la partecipazione collettiva all’elaborazione di un progetto di governo di questo paese e di un progetto – alto – che vede finalmente nella cultura un valore in sé, un ambito strategico in cui investire risorse pubbliche. Che libera la cultura e la conoscenza dal legame berlusconiano con l’impresa e con il mercato. Perché «si possa vedere un film che non esiste, leggere un libro che ancora non è stato scritto». E proprio perché ha avuto un valore così alto nella forma e nel contenuto quel programma non può essere disatteso: nella forma e nel contenuto. Proprio perché così partecipato ha creato delle attese fortissime che rischiano di creare ancor più delusione e passivizzazione. All’ordine del giorno – per quanto riguarda la politica del governo per la cultura – c’è oggi una bozza di legge quadro elaborata dal ministero per i Beni e le attività culturali relativa allo spettacolo dal vivo: teatro, musica, danza, fondazioni lirico-sinfoniche, arte di strada, circhi. E’ un testo che è stato scritto nel segreto delle stanze del ministero, non solo senza aver consultato le forze politiche dell’Unione, ma senza aver messo in atto nulla di quel processo democratico di consultazione e ascolto delle forze artistiche, creative, sindacali e produttive dei diversi settori. Nessuno di quei soggetti che di teatro, di musica, di opera lirica, di arte di strada, di danza vivono è stato mai ascoltato o messo intorno ad un tavolo di consultazione e di discussione. Non è questo il ruolo che noi pensiamo debbano avere le istituzioni, non è questo il ruolo che deve avere la politica. Questa è un’idea privatistica della politica e delle istituzioni. E nel merito di quel progetto non c’è nulla che rispecchi il programma di governo, e con esso le domande che venivano e vengono dal mondo dello spettacolo dal vivo. E se nel programma dell’Unione si sosteneva la necessità di discipline nazionali di sistema per garantire unità ed equilibrio degli interventi pubblici, la necessità di politiche nazionali per produzioni che riguardano la cultura e l’identità di un paese, di rendere lo spettacolo un motore della crescita collettiva, di garantire risorse certe a livello nazionale e si riportava l’artista al centro di qualunque progetto culturale, approntando strumenti e sedi per la collaborazione tra centro e periferia, nella proposta ministeriale si prevede esattamente l’opposto: si abolisce il fondo unico dello spettacolo; si regionalizzano tutte le risorse rischiando di legare la possibilità stessa di esistenza della produzione culturale a drammatici meccanismi clientelari, si favoriscono «nell’attività di promozione e di sostegno dello spettacolo dal vivo la cooperazione….. con le attività produttive e commerciali»; si promuovono “itinerari geografici” che valorizzano l’incontro tra domanda e offerta teatrale. In poche parole: non solo ancora una volta prevale un’idea di cultura il cui valore risiede sostanzialmente nell’utile economico che produce e quindi deve essere governata da criteri di efficacia, efficienza ed economicità (quei criteri che Petrella alcuni giorni fa diceva che, sposati dalla sinistra, l’hanno resa subalterna e perdente sul piano dell’egemonia) ma la filosofia che permea tutta la proposta del governo è drammaticamente preoccupante: lo Stato rinuncia ad una qualsiasi politica unitaria per la cultura ma rimangono di competenza nazionale le fondazioni lirico-sinfoniche e i grandi eventi. Le prime, che avrebbero bisogno di essere trasformate in grandi strutture pubbliche di trasmissione della memoria, di produzione, di sperimentazione, legate al territorio e alle scuole, vengono invece ulteriormente privatizzate. I secondi, i cosiddetti grandi eventi, serviranno solo a togliere risorse per politiche in favore del diritto di accesso alla produzione e alla fruizione culturale per portare utili economici esclusivamente ad alcune categorie, come i commercianti, e utili di immagine ad altri. Per il resto solo precarietà: precarietà dei luoghi, della cultura e del lavoro. Bertolucci nel suo articolo dice anche: «… in campagna elettorale.. non ho mai sentito nei discorsi dei politici per cui mi preparavo a votare pronunciare la parola cultura. Dimenticata? Sottovalutata? Rimossa? Come se i miei politici di riferimento ignorassero che la sottocultura diffusa, o meglio imposta dalle grandi centrali televisive… sta creando generazioni…così incapaci di leggere, di interpretare, di capire la realtà che li circonda da votare ancora una volta, dopo cinque anni di catastrofico centrodestra, per lo stesso centrodestra». Non è certo il solo, nel mondo della cultura, a pensarlo e a dirlo, ma è certo significativo che dopo anni di silenzio e dopo un anno di governo dell’Unione anche persone che sembravano ormai lontane e assenti dalla partecipazione alla politica sentono la necessità “vitale” di intervenire in prima persona. Siamo, così a me sembra, ad un punto cruciale per la vita democratica di questo paese. Il rischio crescente di passivizzazione e di “qualunquismo” si respira fortissimo nei luoghi e nelle situazioni più inaspettate e più insospettabili, insieme ad un generico attacco alla “politica” e alle sue ingerenze. Tutto questo ci riguarda, e spesso ci riguarda da vicino. E ci riguarda perché rischiamo di non cogliere fino in fondo l’importanza immensa della conoscenza e della cultura come strumenti che contribuiscono alla formazione dei livelli di coscienza degli individui, di analisi della realtà e quindi di partecipazione. Cultura e conoscenza come strumenti fondamentali di socializzazione, anche per combattere la passivizzazione e il qualunquismo. Cultura e conoscenza non fattori di “coesione sociale” ma strumenti e momenti fondamentali per poter cambiare il mondo con e nel conflitto. Il manifesto di una assemblea al teatro Vittoria di Roma organizzata dagli artisti di teatro in opposizione alla bozza di legge quadro del governo diceva: «per l’autonomia: una politica per lo spettacolo, non lo spettacolo per la politica». Anche per questo il testo del governo non può trovarci d’accordo.

(Responsabile nazionale Cultura Prc)

Ora, la questione del rapporto tra economia e cultura mi ha fatto riflettere in questa domenica mattina Da un lato sono perfettamente d’accordo sul fatto che la cultura non possa e non debba essere schiava del mercato. Ho però in mente l’esempio di un settore piuttosto particolare della cultura, quello del teatro dell’opera (della pittura parlerò in seguito). Mi spiego meglio.
In Italia, non c’è teatro dell’opera che non sia in perdita: fino a qualche anno fa, viveva una situazione particolarmente drammatica il Teatro alla Scala di Milano, vittima della direzione artistica di un certo signore, grande ricercatore e filologo, personaggio di spicco del panorama musicale ma, ahimé, pessimo uomo di spettacolo nel senso più lato e a mio parere più nobile del termine. Per un esempio di che cosa intendo, si veda l’inaugurazione del teatro dopo lo scempio di Mario Botta: un’occasione che ha visto l’intera città stretta attorno ad uno dei suoi simboli più importanti, con una partecipazione di pubblico senza precedenti, che avrebbe potuto segnare un inedito riavvicinamento dell’uomo della strada al teatro, è stata sfruttata come segue. Un ciclo di visite guidate all’interno del teatro riprogettato. E un’opera filologicamente interessantissima e calzante, l’Europa di Salieri, che  io  stessa sono riuscita a seguire solo per mezz’ora e che avrà ammazzato nei milanesi accalcati attorno ai maxischermi ogni remota voglia di farsi una serata a teatro. Chi controlla un uomo che si arroga il diritto di sprecare un’occasione del genere? Risposta 1: un controllore preposto. Risposta 2: il mercato. E chi paga per gli errori “commerciali” di questo stesso uomo? Risposta unica: quello stesso pubblico che non ha gli strumenti per apprezzare la sua ricerca filologica e cui viene di conseguenza preclusa la fruizione di tutta una fetta di intrattenimento. La musica non viene insegnata. Il teatro nemmeno. Il cinema men che meno. Ci si rende senz’altro conto del problema, ma trovo che non ci si renda conto che questo stesso problema è alla base di quello delle sovvenzioni pubbliche a teatri, edioria alternativa, cinema d’essai et similia. E allora la soluzione per evitare che le forme d’arte con poco pubblico muoiano è sovvenzionarle statalmente (lasciando che si adagino in uno stato di permanente perdita) o intervenire sull’istruzione in modo che se la montagna non va da Maometto, Maometto vada alla montagna? A voi l’ardua risposta.

6 Comments

  1. Paghiamo noi, ora le conseguenze,di decenni di sovvenzioni date solo ed esclusivamrente grazie a nepotismi, bizantismi,fratellanze massoniche etc…Oramai abbiam travalicato le Colonne d’Ercole del Buon Senso e non v’è possibilità di ritorno,carissima. Guarda il cinema: abbiam un Festival, quello di Venezia, che boccheggia, che necessiterebbe di un nuovo Palazzo, di nuove strutture…E parlo di un Festival tra i più importanti del mondo…Che si fa? Lo si aiuta? No,gli si organizza, ad un mese di distanza quello di Roma…Non ho dubbi che certi scempi capitino solo in Italia…

  2. Purtroppo hai ragione, ma il festival di Roma ha le sue ragioni: ha sviluppato un’offerta ottima che coniuga gli interessi del pubblico alla presenza del cosiddetto cinema d’autore, autosovvenzionandosi e salvando capra e cavoli. A Venezia accorrono sempre migliaia di persone a vedere gli attori… ma ci sarà un motivo se non lasciano giù un soldo e rimangono fuori dalle sale.

    La soluzione è una sola, carissimo.

  3. Cercare di istruire una fetta un po’ più ampia di italiani sarebbe importantissimo e bellissimo, ma purtroppo stiamo assistendo allo sfascio programmato della scuola con l’importazione del modello americano, la disincentivazione degli insegnanti, pure quelli più preparati e motivati, e il continuo bombardamento da parte dei media di programmi spazzatura.

    Tempi cupi, Shelidon….

  4. Tempi cupi davvero. Proprio in questo periodo sono impegnata altrove in una discussione assai poco edificante sull’arte moderna che mi sta facendo rendere conto delle voragini della nostra educazione di base… e arte almeno si insegna! Non oso pensare alla musica, al teatro e al cinema…

  5. Sulla Scala: bravissima, non si poteva dire meglio. (Per altro lo scempio non è solo quello di Botta, ma un’infinita serie di dettagli che MB non avrà nemmeno visionato, dal parquet tipo ikea al colore del sipario, dall’incredibile esposizione di tessuti nel Museo alla sparizione della sala gialla dove si svolgevano le prove)

  6. Tocchi tasti dolenti, Fezensac… il parquet Ikea è atroce, così come la maggior parte dei materiali scelti, per tacere della disposizione psicopatica delle sedie in loggione (impossibile accomodarsi se non con le ginocchia rannicchiate, e per fortuna non sono molto alta). Poveri noi…

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