Scoprendo Vikram Chandra

Articolo in anteprima dal Manifesto di oggi che, come sempre, invito a comprare… Nei suoi romanzi fluviali le voci e i colori di Bombay –Carmen Concilio Scrittore legato a Bombay, come Salman Rushdie e Suketu Metha con i quali condivide temi, motivi, personaggi e ambientazioni, anche Vikram Chandra scrive di questa città da geografie lontante, […]


Articolo in anteprima dal Manifesto di oggi che, come sempre, invito a comprare…

Nei suoi romanzi fluviali le voci e i colori di BombayCarmen Concilio
Scrittore legato a Bombay, come Salman Rushdie e Suketu Metha con i quali condivide temi, motivi, personaggi e ambientazioni, anche Vikram Chandra scrive di questa città da geografie lontante, quelle degli Stati Uniti, pur tornandovi spesso. La sua abilità di narratore è stata riconosciuta sin dai suoi esordi, quando appena trentenne venne guardato come un caso letterario grazie alla sua vocazione all’affresco epico, che si stemperò nell’altrettanto sorprendente saga di cinque racconti, la sua seconda opera di successo titolata Amore e nostalgia a Bombay. Del tutto diverso, il suo nuovo romanzo Giochi sacri (Mondadori 2007), un thriller che ricorda un po’ i film di Tarantino e un po’ quelli di Coppola, di cui è protagonista l’ispettore di polizia Sartaj Singh, un sikh super partes che persegue con ogni mezzo la legalità. Una trentina di personaggi si muovono tra queste pagine in ogni angolo del mondo, da Bombay a Delhi al Kashmir all’India rurale degli anni ’90, in balia della guerra tra bande, delle rivolte naxalite, dei falsi guru della guerra, facendo sì che un intero universo regolato dalle «teorie del caos» si avvolga nel romanzo, proprio come succede nei film noir. Oggi lo scrittore indiano sarà protagonista del festival di Massenzio a Roma, una occasione che ci permette di scambiare qualche idea con lui. Le sue opere, a cominciare da «Terra rossa e pioggia scrosciante» fino a quest’ultimo romanzo, sembrano costruite come collane, una pietra infilata dopo l’altra. E ogni storia e ogni capitolo sono allacciati ai successivi. Come descriverebbe questa strategia narrativa? I racconti indiani tradizionali – la grande epica del Mahabharata e del Ramayana, e lunghi cicli in prosa come il Kathasaritasagara (L’oceano dei fiumi dei racconti, Einaudi 1993) – utilizzano una sorta di svolgimento per episodi. Storie generano altre storie e alcune di esse, in bocca ai personaggi, possono svilupparsi fino a diventare narrazioni vere e proprie. È una strategia retorica che può combinarsi con i modelli del realismo psicologico e del moderno romanzo occidentale, producendo effetti interessanti. Quello che mi attrae, in particolare, è il finale aperto di questo tipo di racconti, la capacità di accavallare livelli narrativi per ottenere echi ed effetti contrappuntistici e ironici. È una forma che si è rivelata utile in Giochi sacri, dove le vite dei personaggi sono aggrovigliate le une alle altre, anche quando non si conoscono, creando una rete di legami che attraversa geografie spaziali e temporali andando a costituire la forma del romanzo stesso. Nelle varie storie che si intrecciano a complicare la trama di «Giochi sacri» si evidenzia uno speciale contrasto tra le scelte compiute dai personaggi e l’irruzione del caso, un elemento molto importante nei romanzi polizieschi. La morte, per esempio, sembra sempre arrivare di sorpresa. Come vede la relazione tra questi elementi? Sono contento che lei abbia notato questo contrasto. Il caso è un elemento difficile da governare in un testo narrativo, perché la sua comparsa può facilmente apparire come una soluzione comoda, come l’intervento di un deus ex machina. Ma è anche vero che la casualità gioca un ruolo determinate nella vita reale, o almeno in quella che mi riguarda. Il moderno realismo psicologico spesso non riesce a venire a patti con la casualità, mentre mi pare che i giochi elettronici interattivi evidenzino il ruolo del caso in modo più comprensibile. Lei citava il genere poliziesco: anche qui il contrasto tra caso e razionalità ha un ruolo cruciale. La trama comincia sempre con un’anomalia, un segno inesplicabile – spesso un cadavere – che turba l’ordine dell’universo. Entra in scena il detective e affronta il problema in modo razionale, cerca prove scientifiche, costruisce una teoria, un racconto possibile dell’accaduto, che viene poi verificato finché non aderisce alla verità. L’ordine è così ristabilito. Il detective è una figura post-illuminista, ci offre il conforto secolare di un ordine e un senso ripristinato attraverso la ragione. La scrittura di «Giochi sacri» è vicina al montaggio cinematografico, e in genere molte scene ricordano quelle di film noti, penso agli inseguimenti per le strade di Mumbai. Ma lei fa anche tanti riferimenti ai film di Bollywood e non a caso ha dedicato il romanzo a una regista, Anurahda Tandoon. Quanto è stato influenzato lo stile della sua prosa dal cinema? Forse non tutti sanno che i fratelli Lumière, dopo avere inventato il cinema, sono andati a Bombay, dove il 7 luglio del 1896, all’Hotel Watson, hanno mostrato una raccolta di film brevi. In linea con le usanze razziste dell’epoca, lo spettacolo era aperto ai soli europei. Tuttavia, la notizia relativa a questo nuovo e magico mezzo ha fatto immediatamente presa sugli indiani, che girarono il primo film breve nel dicembre 1899: lo ricordo per dire come la cultura cinematografica sia stata una componente essenziale del nostro incontro con la modernità. L’antichissima passione indiana per il racconto – in tutte le sue forme, popolari e colte – trovava così un altro mezzo per esprimersi, e qualsiasi storia dell’India moderna deve fare i conti con l’influenza che alcune industrie cinematografiche hanno avuto sulla sfera politica, sociale, e individuale. Per quel che mi riguarda, sono cresciuto in una famiglia in cui l’interesse per il cinema era fortissimo: mia madre, Kamna, è una scrittrice che si è dedicata poi alla sceneggiatura, e ci portava al cinema ogni settimana. Per scrivere Giochi sacri sapevo di volere utilizzare le forme del thriller, del giallo, del poliziesco, e usare alcune tecniche filmiche mi è sembrato appropriato. Va anche ricordato che il romanzo è centrato sulla città di Bombay, e che il suo mito passa attraverso le immagini dei film. Inoltre, scrivere un romanzo sul mondo malavitoso senza dialogare con il cinema sarebbe stato impossibile. Il critico indiano Aveek Sen ha colto molto bene questo aspetto, quando ha scritto sul Telegraph: «Bollywood sta a Giochi sacri come il romanzo cavalleresco sta a Don Quixote – una mitologia viva e durevole, un universo scintillate di immagini e di significati per i quali la gente vive e muore, si crea o si ri-crea, si conosce (o rifiuta la conoscenza di sé) dei mondi e delle storie in cui vive». Passiamo dunque alla città in cui è ambientato il suo ultimo romanzo: Mumbai sembra divisa non solo in caste o comunità religiose, ma anche in piccole province, come la zona dei maharati, quella dei bangladeshi, dei gujarati e così via, a seconda delle aree occupate dagli immigrati che giungono da tutta l’India. Come è possibile la sopravvivenza di una città così frammentata e divisa? Le famiglie meno abbienti a Mumbai spesso vivono in chawls, caseggiati a ringhiera, generalmente costruiti attorno a cortili vuoti. Tutti gli appartamenti sono in affitto e guardano verso il cortile, hanno un ballatoio e un gabinetto in comune. Poiché si condividono gli stessi spazi, c’è molta interazione fra i vicini, che lasciano le porte sempre aperte. Il fenomeno interessante è che quando le famiglie raggiungono uno stato di maggior benessere e si spostano nei nuovi condomini, alcune non sopportano l’isolamento e la solitudine, tanto che in molti casi vogliono tornare indietro. La comunità garantisce una forza e un sostegno innegabili. Dunque, a una determinata lettura il patchwork cittadino risulta diviso; ma a un’altra garantisce la conservazione dei rapporti sociali all’interno delle comunità. Le bande criminali descritte nel romanzo sembrano non conoscere divisioni al loro interno. La classe e la condizione sociale non contano molto in quel contesto: che tipo di mondo o di società rappresentano? Le bande vengono chiamate «company» proprio perché il loro scopo principale è unirsi per fare soldi. Come accade per altre imprese economiche, anche quelle dei gangster hanno questo unico obiettivo comune. E come ogni altro lavoratore, un criminale può interagire con chiunque e poi rientrare nei ranghi. Dopo la distruzione nel 1992 della Babri Masjid, la moschea di Ayodhya, in seguito alla quale ci furono disordini tra musulmani e indù ed esplosioni dinamitarde a Mumbai l’anno successivo, per un po’ alcuni boss cercarono di strumentalizzare i sentimenti religiosi per autopromuoversi e guadagnare sostegno; ma ora tutto ciò è passato e il mondo malavitoso è tornato alla laicità. Come è nato il suo interesse per il mondo della polizia e delle bande criminali, e che tipo di ricerche ha dovuto fare per rappresentarlo? Quando scrivevo Amore e nostalgia a Bombay, in cui il personaggio di Sartaj appariva per la prima volta, avevo incontrato alcuni poliziotti e giornalisti dei quali poi divenni amico. Così chiesi loro di presentarmi qualcuno che potesse parlarmi del mondo del crimine, e negli anni ho incontrato e ascoltato molti poliziotti, assistenti sociali, politici, vittime. Per lo più questa ricerca mirava a far parlare le persone della loro vita e delle proprie esperienze, ma quando stavo per terminare il romanzo mi sono ritrovato con l’urgenza di rispondere a domande specifiche e dunque ho cercato chi potesse darmi informazioni dettagliate, sui diversi ambienti che volevo indagare. La corruzione a Mumbai sembra endemica in tutti gli ambienti, a ogni livello della vita civile. Tutti i suoi personaggi – non importa da che parte stiano – sono rassegnati a pensare che non ci sia via d’uscita. Davvero non è possibile immaginare nulla di diverso a Mumbai? Per la verità, tutti immaginano sempre un mondo diverso, più difficile è figurarsi una via rapida a quel paradiso. La democrazia in India è elastica, cosa apprezzabile, ma anche i bambini di strada capiscono quanto sia corruttibile. Alcuni, come il personaggio di Kamble, quello che nel romanzo agisce in qualità di collega dell’ispettore Sartaj, sognano che il fascismo porti una soluzione e ripulisca tutto. Altri, come Aadil, un giovane del Bihar, scelgono la ribellione maoista e imbracciano le armi contro lo stato. Altri ancora si abbandonano all’apatia e alla disperazione. Ma, per lo più tutti si adoperano per sopravvivere e dare ai propri figli un futuro migliore, e continuano ad aver fiducia nella democrazia indiana, nonostante i suoi fallimenti. L’apertura dell’economia ha avuto come effetto l’eliminazione della mastodontica burocrazia che ha foraggiato la corruzione. I media continueranno, si spera, a denunciare il malgoverno. Ma il processo per eliminare il marcio sarà lento. Nel romanzo c’è un brano significativo in cui un personaggio di nome Gaitonde si adopera a imparare l’inglese attraverso i film, in modo da poter entrare a far parte del mondo globalizzato della politica, degli affari e poi anche della criminalità. Che importanza si dà, comunemente, all’apprendimento dell’inglese oggi in India? Persino nel cuore del Bihar, lo stato più povero del paese, ho visto minuscole scuole arrangiate in dei bilocali offrire «corsi di inglese». Tutti hanno compreso che la conoscenza della lingua dà un’opportunità di ascesa sociale che altrimenti non si avrebbe, come si deduce da tutti quei manuali del tipo Learn English Fast venduti a ogni angolo di strada e nelle stazioni ferroviarie. Inoltre, in alcuni stati indiani, tra cui il Maharashtra, l’inglese viene insegnato nelle scuole statali sin dalla prima elementare. In Giochi sacri ho tentato di riprodurre l’inglese colloquiale degli indiani, quello che userei anch’io standomene seduto in un bar di Mumbai a raccontare una storia a un amico: è una lingua innaffiata da altri idiomi indiani, di cui ricalca la costruzione e le locuzioni. Si è sempre temuto che l’ascesa della classe media coincidesse con il trionfo dell’inglese a scapito delle altre lingue, ma le cose sono molto più complicate. Per esempio, la lingua hindi sta vivendo un momento di rinascita, tanto che in India vengono pubblicate forse un migliaio di riviste letterarie in questa lingua e altre straniere vengono tradotte. È un panorama che evolve, mi pare, in modo imprevedibile.

Fra letteratura e cinema. Romanzi, racconti e sceneggiature
Nato a New Delhi nel 1961, Vikram Chandra, dopo avere trascorso i primi anni dell’infanzia in giro per l’India al seguito del padre, ha compiuto i suoi studi prima in una scuola dei gesuiti e poi al Mayo College, un prestigioso istituto nel cuore del Rajasthan. In seguito si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha studiato inglese, scrittura creativa e cinema. Una passione, quella per la letteratura e per il cinema, che appartiene a tutta la sua famiglia: la madre, le sorelle e la moglie dello scrittore hanno infatti al loro attivo romanzi, sceneggiature e testi di critica cinematografica, e una delle sorelle è anche regista. A dargli la notorietà è stata nel 1995 la sua prima opera narrativa, il monumentale «Terra rossa e pioggia scrosciante» (Instar Libri, 1997) con cui ha vinto fra l’altro il Premio Commonwealth per esordienti e al quale ha fatto seguito due anni dopo la serie di racconti «Amore e nostalgia a Bombay» (Instar, 1999). Nel 2000 Chandra ha collaborato con il saggista Suketu Mehta alla sceneggiatura del film «Mission Kashmir», diretto da suo cognato Vidhu Vinod Chopra. Attualmente lo scrittore vive fra Oakland, in California e Mumbai.

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