In morte di Jean Baudrillard

Due giorni fa ci ha lasciati Jean Baudrillard, studioso e fotografo francese cui tanto devono le correnti del post-modernismo e del post-strutturalismo. Marxista fino all’osso al punto da entrare spesso in conflitto con il resto della cultura del suo tempo, ha ribaltato forse per sempre la percezione dell’oggetto e del consumo, nonché degli oggetti. Per […]

Due giorni fa ci ha lasciati Jean Baudrillard, studioso e fotografo francese cui tanto devono le correnti del post-modernismo e del post-strutturalismo. Marxista fino all’osso al punto da entrare spesso in conflitto con il resto della cultura del suo tempo, ha ribaltato forse per sempre la percezione dell’oggetto e del consumo, nonché degli oggetti.

Per chi non conoscesse questo personaggio, consiglio questo articolo, dalla Stampa di ieri, in cui si racconta in maniera concisa ma piuttosto completa qualcosa su di lui.

Jean Baudrillard, l’estetica del simulacro
GIANNI VATTIMO

Sebbene lo si identifichi generalmente con il nome e l’opera di un altro grande maestro del pensiero francese, e cioè con Jean-François Lyotard, il postmodernismo deve forse di più alla riflessione di Jean Baudrillard, già professore a Nanterre nel periodo epico della rivolta studentesca del 1968. A quella rivolta e allo spirito di quell’epoca, Baudrillard rimase in fondo sempre fedele, e i suoi rapporti con il movimento comunista e il marxismo ne furono sempre segnati, nei termini di una costante polemica contro il burocratismo stalinista del Pcf dell’epoca e poi nello sforzo costante di integrare il marxismo in una visione più radicale della storia e della società. Nato nel 1929 a Reims, Baudrillard studiò a Parigi e nel 1966 era assistente di Lefèbvre, maestro di una sociologia critica della vita quotidiana che sarebbe stata sempre una delle tematiche favorite di Baudrillard. Degli Anni Sessanta e dei primi Settanta sono le opere più significative, che lo resero presto molto popolare presso l’intellighenzia europea e americana (secondo alcuni, anzi, più nel mondo latino-americano e anglosassone che nella stessa Francia). La ricchezza e originalità del lavoro di Baudrillard consistette, allora come più tardi, nel mettere a frutto da un punto di vista di critica sociale molte delle idee dello strutturalismo francese, che presso altri autori apparivano piuttosto come un semplice metodo di descrizione della nuova realtà sociale del mondo tardo-capitalistico. Da Il sistema degli oggetti (1968) a La società dei consumi (1970) Baudrillard sviluppa un discorso che, ispirato a un marxismo niente affatto ortodosso, vede nel crescente spossessamento del soggetto, ridotto a consumatore ossessivo delle merci che il sistema produttivo getta sul mercato, il vero senso della società attuale e dell’alienazione da essa indotta. Quello che per lo strutturalismo era la centralità e la quasi indipendenza del mondo dei segni – giacché anche il significato delle parole, per Saussure, è solo risultato di un sistema di differenze interne alla lingua, e non di un diretto riferimento alle cose – diventa per Baudrillard la realtà stessa nella quale non conta più tanto il valore d’uso degli oggetti e nemmeno il loro valore di scambio. Queste due categorie sono proprie di un marxismo ancora prigioniero della logica della produzione, intimamente compromessa con il capitalismo. Andando oltre queste categorie del valore, Baudrillard si ricollegava anche agli studi del sociologo americano Thorstein Veblen, che aveva messo l’accento sul valore delle cose come status-symbol, come simboli di differenziazione sociale molto più che come strumenti o come moneta di scambio; e riprendeva soprattutto la teoria dell’economia generale come l’aveva proposta Georges Bataille, che, contrariamente a tutta la tradizione classica che la fondava sulla penuria, poneva al centro l’idea di spreco, di consumo eccessivo come manifestazione di vitalità e di sovranità del soggetto. Si andava costruendo così in Baudrillard un’idea di società che lo collocava di fatto tra i pensatori più significativi della post-modernità. Come si sa, il postmoderno era cominciato con Lyotard quando si erano dissolti i «metaracconti», cioè le grandi visioni ideologiche della realtà ridotta a principi supremi che permettevano di spiegare tutto: marxismo, idealismo hegeliano, positivismo, metafisiche di carattere religioso. Questi metaracconti erano caduti di fatto con la fine dell’eurocentrismo e degli imperi coloniali, le altre culture avevano preso la parola, ognuna con il suo modo di ordinare e spiegare la storia. Non c’è più, lo dice Baudrillard ma in fondo lo pensava anche Lyotard, un mondo «reale» in base a cui criticare i «racconti» o stabilire la verità vera. Il mondo dei segni è il solo dentro cui ci muoviamo, e naturalmente è un mondo molteplice. Ma quale criticità è ancora possibile, allora? Baudrillard rimane fedele alla sua ispirazione «rivoluzionaria» d’origine; anche se non condivide più la filosofia della storia marxista, pensa tuttavia che una forma di resistenza al dominio – che ora si esercita anche e soprattutto nel mondo dei segni, nel determinare l’immaginario collettivo, i desideri e i bisogni – sia possibile, nella forma di una resistenza all’imporsi universale della logica della produzione e del consumo. Le opere del Baudrillard maturo, soprattutto Lo scambio simbolico e la morte (1976), e poi Strategie fatali (1983), L’illusione vitale (2000), Il Delitto perfetto (1994) tendono però ad accentuare gli aspetti pessimistici della sua filosofia. Il mondo dei segni diventa sempre più quello in cui tutte le forme di lotta e di contrasto storico si dissolvono in una sorta di iperrealtà che somiglia al mondo virtuale dei calcolatori, come se la storia fosse davvero finita – e del resto Baudrillard la considera in certo senso terminata con la fine dell’Unione Sovietica e la caduta del Muro di Berlino. Ciò che resta tuttavia sempre irrisolto nel suo pensiero – e ne costituisce la ricchezza e la proseguibilità anche nella situazione attuale della filosofia e delle scienze sociali – è il problema se la «perdita» della realtà a favore dell’iperrealtà del mondo dei segni, o di quelli che egli ci ha insegnato a chiamare i «simulacri», sia davvero solo un fatto di alienazione o anche un possibile modo di liberazione. Come forse il Baudrillard marxista eterodosso dovrebbe essere incline a pensare.

8 Comments

  1. Caro Brian, io penso che difficilmente la risposta si possa ricercare nel mezzo ma sia, come al solito, da ricercare principalmente nell’uso che se ne fa. Attraverso questo “simulacro di realtà” ho conosciuto e conosco moltissime persone che senza dubbio hanno arricchito la mia vita, e ho accesso ad una grande fetta di cultura cui mai avrei avuto l’occasione di avvicinarmi. E questo è sicuramente una “libertà”. L’alienazione, come sempre, deriva secondo me quando lo strumento assume vita propria e senso fine a se stesso, perdendo di vista gli scopi. E’ come con il cellulare o l’automobile, quando non sono più uno strumento ma un fine. Insomma, il problema non è l’oggetto ma la persona che lo usa. *__^

    @ Paolo: Sono un’inguaribile ottimista, soprattutto per quanto riguarda la letteratura. Spero di non trovarmi mai a dovermi ricredere.

    @ Chiarina: anch’io ci sono rimasta. A volte tendi ad immaginare certe personalità come astratte dalla vita reale, e quando ti raggiungono fatti di cronaca così rimani spiazzato. E’ vero ciò che ha detto non ricordo più chi riguardo a Toscanini: certi maestri ci lasciano sempre troppo presto, indipendentemente dalla loro età.

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