"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

La trama del tempo sulle immagini

E. Degas, Danseuse Sur La Scene

Dal Manifesto di oggi.

La trama del tempo sulle immagini – ANDREA PINOTTI
Storico dell.arte e filosofo, Georges Didi-Huberman rappresenta una delle voci più originali nel variegato contesto degli studi sulla cultura visuale: fin dai primi lavori il suo percorso si è caratterizzato per una serrata critica alla tradizionale storiografia artistica, a suo avviso sterilmente polarizzata tra il valore atemporale dell.immagine promosso dal classicismo e il suo valore cronologico difeso dallo storicismo. A questa inadeguata alternativa Didi-Huberman contrappone un.idea anacronistica di storia, centrata sul montaggio di ritmi temporali eterogenei, di cui le immagini costituiscono dei rivelatori. Memoria, montaggio, sintomo; Warburg, Benjamin, Freud: è questa la triangolazione in cui si muove la sua ricerca, alla convergenza tra storia dell.arte, filosofia e psicoanalisi, nello sforzo di circoscrivere nella parola ciò che alla parola sempre di nuovo si sottrae, il visuale, l.immagine appunto. O meglio le immagini: rigettando infatti ogni discorso generalizzante, Didi-Huberman coltiva un rigoroso rispetto per la pluralità delle immagini, ciascuna contrassegnata da una sua irriducibile singolarità formale, che tuttavia, una volta indagata con gli strumenti della filologia, consente un.apertura verso orizzonti antropologici più ampi, che ne dischiudono la dimensione filosofica. Con L.immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria e la storia dell.arte, che uscirà il mese prossimo da Bollati Boringhieri (traduzione di Alessandro Serra) si rende disponibile per i lettori italiani un suo monumentale studio che è, insieme, una ricostruzione della parabola intellettuale del Warburg storico e teorico dell.immagine e una più generale meditazione sul complesso rapporto che lega l.umanità al proprio passato e alle figure in cui si è rappresentata. Ma lasciamo la parola a Didi-Huberman, che abbiamo incontrato a Milano dove ha tenuto una conferenza titolata Costruire la durata, perché sia lui stesso a guidarci lungo le diverse stagioni dei suoi interessi. Lei ha dedicato i suoi studi alla comprensione del mondo delle immagini. Di esse si dice che sarebbero così pervasive, e il loro uso così inflazionato, da rendere sempre più difficile distinguere tra immagine e realtà. Qual è la sua opinione? Oggi facciamo esperienza di un.oggettiva difficoltà nel riconoscere un.immagine e nel conoscerla, per due ordini di ragioni, connessi a problemi legati tanto alla invisibilità quanto alla inguardabilità. Un.immagine è resa invisibile dalla censura, una pratica secolare di negazione che trova continuità nella politica dei mass-media: ad esempio quando è stata in gioco l.acquisizione dei diritti satellitari da parte del governo statunitense prima del bombardamento dell.Afghanistan o nella copertura della Guerra del Golfo. Da questo punto di vista, come sostiene Godard, Americani e Talebani sono simmetrici. Mi sembra molto illustrativa la copertina del libro di Jack Goody L.ambivalenza della rappresentazione dove viene mostrato un Talebano che si fa fotografare mentre brucia un rullino fotografico. Inguardabile, invece, un.immagine lo diventa quando viene inserita in un flusso di migliaia di altre immagini, oppure quando viene infinitamente ripetuta fino al punto di non poter essere più guardata davvero. Non condivido tuttavia la diagnosi di chi . come Baudrillard e Virilio . afferma che tutto è simulacro. Dobbiamo piuttosto opporre a un uso delle immagini consolatorio o mistificatorio l.abitudine a sceglierne una, indugiare di fronte ad essa, prendere tempo per guardarla. Più guardiamo un.immagine, più essa ci inquieta. Tale inquietudine era ben nota ad Aby Warburg, che alle immagini ha dedicato la propria vita. Intorno alla sua figura, e alla sua eredità che solo in parte l.iconologia ha raccolto, ruota il libro che lei ha scritto di recente con il titolo «L.immagine insepolta». Cosa c.è in Warburg che gli iconologi non hanno saputo o voluto vedere, e che lei tenta di recuperare? In Warburg troviamo una duplice prospettiva, che potremmo sintetizzare nel contrasto fra logos (astra) e pathos (monstra): la storia delle immagini gli appare come una storia di conflitti tra queste due istanze, e questa conflittualità diviene per lui un.esperienza intima, come lo è stata per Nietzsche e per Freud. Ma Warburg è morto nel 1929, mentre Panofsky, Saxl, Gombrich hanno fatto esperienza dei monstra irrazionalistici di cui l.Europa è caduta preda dopo il 1933. La storia dell.arte non è più la stessa dopo l.emigrazione, e l.esigenza di concentrarsi sulla razionalità del logos ha fatto sì che il pathos venisse trascurato o ridotto nel quadro di una semiologia che ignora totalmente quel che invece era ben presente a Warburg: il mondo dell.inconscio. Ce ne rendiamo subito conto se confrontiamo la logica dei loro modelli temporali: il tempo di Panofsky è deduttivo, chiaro e distinto, lineare; il tempo di Warburg è rizomatico, ricorda un groviglio di serpenti vivi e si presta a riconoscervi una irriducibile complessità di percorsi ambivalenti. Il tempo è quell.intreccio: non una linea, tantomeno un progresso. Per fare un solo esempio, Donatello è più gotico alla fine e più rinascimentale all.inizio della sua parabola. La difficoltà caratteristica di Warburg di concludere un libro testimonia un infinito rispetto per la complessità, che l.organizzazione della sua biblioteca amburghese (la sua vera e propria opera) ha cercato di salvaguardare grazie alla legge del buon vicinato, per cui i problemi sollevati da un volume dovevano trovare possibili risposte in quelli che lo affiancavano sullo scaffale. Il suo era un ordine dinamico e instabile, un groviglio che mutava all.arrivo di ogni nuovo volume. Se si confronta la biblioteca di Warburg con la fototeca ordinata da Saxl secondo un criterio lineare e statico si avrà un.esperienza concreta del loro diverso orientamento. La linearità cronologica caratterizza la concezione corrente della storia. Dai suoi lavori emerge invece con forza un.idea anacronistica della storia delle immagini, che invita a considerare piuttosto la contemporaneità fra momenti storici anche molto distanti. Si considera ancora uno storico dell.arte? Parlerei innanzitutto più volentieri di una storia delle immagini che non dell.arte. «Arte» è un concetto condizionato dalla politica dei musei, dai libri d.arte, dal mercato e dalla moda. Mi considero comunque uno storico dell.arte che cerca di lavorare nel solco di una tradizione bruscamente interrotta nel 1933. Prima di quella data la storiografia artistica era profondamente intrecciata alla riflessione filosofica: pensiamo a figure come Riegl e Dvorak; a Wölfflin e allo stesso Warburg (stancamente contrapposti come il formalista all.iconologo, mentre provengono entrambi da Burckhardt); oppure prendiamo teorici come Robert Vischer o von Hildebrand: sono scomparsi dal vocabolario americano di Panofsky e di Saxl, perché nessuno negli Stati Uniti avrebbe potuto capirli; quanto a Schlosser, di giorno dirigeva la sezione arti minori del Kunsthistorisches Museum di Vienna e la sera traduceva Croce e teneva con lui una corrispondenza filosofica. Oggi purtroppo non conosco un direttore di museo che coltivi interessi simili. Ci sono tuttavia segni importanti di ripresa. La storiografia deve liberarsi dalle ipoteche delle Annales, che hanno costretto la temporalità in una tipologia triviale (lunga, media, breve durata): ogni oggetto, ogni evento è invece un intreccio di tempi e ritmi eterogenei che lo storico ha il compito di descrivere. La storia dell.arte non ha perduto la sua acutezza filologica, ma quella filosofica sì, e deve ritrovarla. Warburg ha posto al centro delle sue ricerche la raffigurazione di certe posture corporee portatrici di affetti; prima di occuparsene, lei aveva studiato l.iconografia dell.isteria, raccolta alla Salpêtrière di Charcot («Invention de l.hystérie», Macula 1982), e le figure anatomiche («Aprire Venere», Einaudi 2001). Vede un nesso fra quelle immagini e le contemporanee espressioni della body-art? Nel suo esporre la dimensione figurativa del corpo la body-art ricorre senza alcun dubbio alla tradizione iconografica dell.isteria, e credo che il lavoro di una artista come Marina Abramovic debba molto a Charcot. Quando mi sono accostato allo studio di alcuni campi marginali della storia delle immagini, per esempio – appunto – la fotografia medica delle psicopatologie in cui viene alla luce l.impressionante virtù figurativa del corpo, non conoscevo ancora Warburg. Incontrandolo più tardi, mi sono reso conto di come le sue riflessioni sulla costellazione della vita estatica (ninfa, accessori in movimento, patetismo, erotismo, violenza) si riallacciassero al mondo isterico e ai suoi monstra, indagato dalla psichiatria e dalla psicoanalisi. In questo senso il suo atlante Mnemosyne va annoverato in quella schiera di progetti che nel .900 hanno profondamente ripensato il rapporto fra il mondo fisico e quello psichico, fra corpo e mente, cui appartengono anche i fondamentali Documents di Georges Bataille. Questi «monstra», più che essere produzioni individuali, sembrano giungerci da un patrimonio figurativo collettivo, quello indagato da Jung con la sua dottrina degli archetipi. Nei suoi libri a fianco di Warburg si incontra invece Freud. Cosa può insegnarci la psicoanalisi sul nostro rapporto con le immagini? Io difendo una storia dell.arte dedicata a oggetti singolari nelle loro irriducibili peculiarità e respingo l.inclinazione di alcuni teorici ad affermare astratte generalità. Per questo motivo contesto l.accostamento di Warburg a Jung: il primo è sempre stato ostinatamente aderente alla singola immagine, coltivando una minuziosa osservazione delle differenze formali nelle quali la formula sopravvive mutando continuamente di senso. Jung invece ha irrigidito il proprio concetto di archetipo attribuendogli una valenza extra-temporale, che conserva il proprio significato per l.eternità, sottraendosi così alle dinamiche metamorfiche del tempo storico. Quelle dinamiche di cui invece la dottrina freudiana del sintomo, con i suoi intrecci temporali, era pienamente consapevole. Per comprendere la costruzione di tali dinamiche lei ricorre di frequente a Walter Benjamin e alla sua teoria del montaggio: quel che lei propone, applicando tale modello cinematografico alle immagini pittoriche, è di guardare alla storia dell.arte come a un lunghissimo film? Il concetto di montaggio non va frainteso con la retorica filmica della continuità dei piani; è anzi il contrario, un modo di produrre alterità, ritmi interrotti, al fine di mostrare non le variazioni successive di un identico predeterminato, bensì le differenze di ciò che non è omologabile. Se si confrontano due concezioni radicalmente opposte di atlante e di montaggio, da una parte La donna delinquente, la prostituta e la donna normale di Lombroso e dall.altra Mnemosyne di Warburg, si può vedere come nel primo la successione di immagini femminili simili sia piegata a illustrare un concetto predeterminato di devianza sociale; nel secondo l.accostamento di soggetti anche molto distanti genera invece uno choc che è al contempo smontaggio di una conoscenza irrigidita e montaggio di una nuova comprensione. Da questo punto di vista, il montaggio di Benjamin o di Warburg si avvicina a quello di Ejzenstejn o Godard o Farocki: montaggio come attrazione di differenze, non di similitudini. Proprio riguardo allo choc, recentemente Jean Clair ha accusato l.arte contemporanea di abusarne per scuotere un pubblico sempre più annoiato. Lei, che ha lavorato a stretto contatto con artisti contemporanei tra i quali James Turrell, Pascal Convert, Simon Hantaï, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, che ne pensa? Non condivido il giudizio generico di Clair, perché trovo che parlare di «arte contemporanea» non significhi nulla. Per quanto mi riguarda, mentre considero assolutamente fondamentale il rapporto con artisti viventi, d.altra parte noto un recente cambio di registro nel mio modo di accostarli. Se prima il mio orientamento era relativamente poco storico, e consisteva soprattutto in un.ammirata osservazione del loro operare con le tecniche e i materiali, recentemente, proprio muovendo da Convert, sto tentando di concepire dei capitoli della storia dell.arte privilegiando gli intrecci temporali che è possibile rintracciarvi. Lo stesso Warburg insegna a guardare alla storia delle immagini come a un inesausto sopravvivere di antiche formule figurative. Ma l.accento su ciò che ritorna non rischia di mettere in secondo piano quegli elementi di novità ai quali si è soliti connettere la creatività artistica? Kierkegaard, Nietzsche, Freud, Deleuze ci hanno insegnato, ciascuno a suo modo, che la ripetizione non va intesa come ripetizione dello stesso, bensì come ripetizione del diverso, come differenza. È relativamente facile riconoscere il gesto di una scultura greca o romana nella rappresentazione di una donna elegante (ad esempio nelle immagini della moda), ma occorre prestare attenzione a ciò che, nel ripetersi, si trasforma. Posso ricordare qui tre casi paradigmatici: in Poussin le donne esibiscono posture mai viste nell.arte antica, che fanno piuttosto pensare a dipinti ottocenteschi. Goya durante il viaggio in Italia ha copiato gli antichi; ma, rientrato in Spagna, ha guardato le donne del popolo, e ha raffigurato lo stupro in modo molto diverso dal modello berniniano di Apollo e Dafne. Infine Degas: ha osservato le ballerine, non però mentre danzano, ma mentre provano e soffrono nel lavoro di ogni giorno. In questi casi sono state generate nuove formule espressive. È appunto per la sua dialettica di ripetizione e innovazione che Baudelaire è centrale nel mio libro Ninfa moderna: l.innovazione sta nel fatto che nella modernità un poeta sa ancora riconoscere la ninfa, ma la scorge non presso l.Olimpo, ma lungo i marciapiedi, vicina non più alla fonte, ma alla fogna. Secondo alcuni, la rappresentazione ha conosciuto nel .900 un limite invalicabile: l.Olocausto. È una opinione che il suo «Immagini malgrado tutto» (Cortina, 2005) critica con forza. Perché? Come sempre nei miei lavori, anche in questo caso non ho preso le mosse da una posizione teorica generale predefinita – la Shoah è rappresentabile, la Shoah è irrappresentabile – ma sono partito da oggetti singoli la cui complessità, una volta indagata, può indurci a modificare la nostra idea generale: questo è il loro significato filosofico. Il movimento va dalla singolarità formale alla generalità antropologica: occorre focalizzare l.obiettivo sul singolare, e poi gradualmente aprire sulla prospettiva antropologica generale. Così è stato per quei quattro scatti presi clandestinamente da alcuni prigionieri appartenenti a un Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau nel 1944: fotografie che avevo visto da bambino in una mostra itinerante, e che erano da tempo note agli storici, ma che non erano mai state guardate davvero. Dal lavoro filologico su tali singolarità sono emersi elementi molto concreti, che confutano tragicamente quell.estetica negativa, da molti condivisa, che appunto vorrebbe l.Olocausto irrappresentabile, indicibile, inimmaginabile: un.opinione per lo più sostenuta da buone intenzioni, ma che rivela in realtà una sostanziale pigrizia intellettuale ed etica. Inimmaginabile lo sterminio avrebbe dovuto esserlo nelle intenzioni stesse dei responsabili del genocidio, che avevano programmato la scomparsa dei corpi, delle anime, della lingua, delle immagini, dei testimoni, dei documenti, persino degli strumenti della scomparsa stessa. Ma la fotografia, come mostrano quegli scatti trafugati, possiede una particolare capacità di contraddire ogni volontà di scomparsa, e ci costringe a una radicale revisione di una vulgata troppo superficialmente ripetuta.

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