"All this he saw, for one moment breathless and intense, vivid on the morning sky; and still, as he looked, he lived; and still, as he lived, he wondered."

Riguardo ad Apocalypto

Dal Manifesto di ieri:

Mai dire Maya Arianna Di Genova
Arriva Apocalypto, il film di Mel Gibson sugli ultimi istanti della civiltà Maya e in Italia, prima ancora che qualcuno lo veda, parte una crociata bipartisan, che fa andare a braccetto governo e opposizione. Motivo della riconciliazione, il mancato divieto ai minori della pellicola, nonostante le scene violente. Un déjà vu, dopo le polemiche scatenate dal precedente kolossal splatter, The Passion. E, in fondo, un ottimo lancio pubblicitario (negli Usa, il film ha già incassato 50 milioni di dollari, gli stessi spesi per produrlo). Il battage è spettacolare. Tanto da indurre Roberto Poletti (verdi) a chiedere, «per manifesta incapacità di tutelare gli interessi dei minori e dei cittadini italiani, l’azzeramento della quarta sezione della commissione di revisione cinematografica», colpevole inoltre di una «sfacciata tutela delle lobby» che detengono il potere sul grande schermo. Scavalca tutti a sinistra, invece, Rosy Bindi che dice di non temere i film cruenti ma l’assoluto disinteresse per i progetti educativi. «La violenza delle immagini non è certo la causa dei comportamenti deviati che vediamo emergere in molti adolescenti», chiosa con antica saggezza. Ma il più preoccupato di tutti sembra Francesco Rutelli. Che fa di necessità virtù: se la commissione incaricata non vieta il film, meglio farlo da sé, altrimenti finirà presto in tv, orario bambini. A scongiurare il nefasto evento, basta una letterina dell’Epifania che chiede a tutti gli esercenti di scoraggiare l’ingresso dei minori. Soprattutto a quelli non accompagnati. E se proprio quei ragazzini insistono, vanno avvertiti del campionario di atrocità cui vanno incontro. Suona strana la predica del ministro – e di vari psicologi – proprio nei giorni delle impiccagioni serial di Saddam & Co., con il prime time Rai occupato da un’estasi da cappio, mentre in America si annuncia, negli scaffali dei negozi, la super-didattica bambola di Hussein con la corda al collo. A memoria futura. Carlo Freccero, ex direttore di Raidue, ha sbaraccato la polemica spazzando via ogni buonismo: «Se avessimo dovuto applicare questo criterio, avremmo dovuto spegnere i tg dal 2001. Dopo Abu Ghraib, è imbarazzante fare ragionamenti di questo tipo». I Maya erano cattivi, ma il peggio era ancora tutto da venire.

 

«Apocalypto», l’abisso splatter di una civiltà Luke Ciannelli
Esce oggi in Italia Apocalypto di Mel Gibson, condito dalla farsa delle polemiche sulla presunta violenza delle sue scene (da videogame). Nel film, un giovane uomo, dalla dentatura sana, e dai capelli e il piercing strepitosi, cerca in realtà di assicurare tre principi basilari – diritto alla vita, alla salute e alla felicità – tutelati dalla costituzione americana, per sé, per la moglie e per i suoi due figli piccoli. Per farlo, per vincere, per sopravvivere alla «selva oscura» quando tutto sembrerebbe congiurare contro di lui, dovrà scappare, correre più veloce di Lola Run e superare la paura. Accettare lo scontro con mostri dai denti orribili, dare carta bianca all’astuzia. Nessuna trattativa è più possibile se una civiltà è sull’abisso, come annuncia la citazione finale, sui titoli di coda, dello storico Will Durant alludendo a Roma: «una grande civiltà non si conquista dall’esterno, se non è già interiormente dissolta». Fuggire, ricominciare daccapo… Non siamo però nell’America di oggi se non dietro la macchina da presa. Una telecamera digitale a alta definizione che gioca, salta come un grillo e si diverte come un bimbo, soprattutto sulle cascate, dentro i pozzi, tra le carni martoriate e nelle le sabbie mobili. La guida Mel Gibson, regista, sceneggiatore (con Farhad Safinia) e produttore di questo gioco fosco più che epico, insopportabilmente orientalista, con striature da commedia pesante all’italiana e ritmica avventurosa da telefilm. Un film sull’America dell’altro ieri che, nipotino di The Passion of the Christ, non manca di predica finale, fa sangue da tutte le parti, e non è privo di lacerazioni gore, e decapitazioni (anche se mistiche) che gli hanno valso una classificazione, quasi eretica per un film Buena Vista-Disney, la «R» (violenza grafica e immagini disturbanti). I perizoma fatti indossare pudicamente a tutti gli attori, anche neonati, da un anacronistico puritanesimo precolombiano; una musica energetica e virile che butta in dinamismo agonistico e la fotografia acquerellata e leccata di Dean Semler (Balla coi lupi) hanno però il compito di tamponare le ferite e gli squartamenti più insopportabili. Così un inseguimento a piedi gay, a retrogusto sadomaso (anche se un po’ anabolizzato) si dissimula meglio e trova più pubblico. Il cinema classico sacrificava la vita delle bellissime donne, quello moderno aspirava alla morte di corpi favolosi, maschi, femmine o trans, quello postmoderno, turbato dai tre mondi minacciosi, preferisce torturare a morte, come ad Abu Ghraib o in Bravehart, i «quasi-uomini», meglio se dipinti di blu, senza grazia di dio o privi di carità cristiana. Il nuovo film di Gibson ci trasporta dunque, non acquietati ancora i turbamenti perversi da chierichetto visionario, nella foresta Catemaco dello Yucatan messicano e dark di oltre 5 secoli fa, dove non le glaciali corporation ma giganteschi templi di pietra della crudeltà, tuttora troneggianti nella giungla, altro che Grande Tempio, altro che Twin Towers, sancirono il sacro arbitrio del terrore (finché ci fu chi fece molto peggio di loro). Attenzione, si parlerà nel film (ma poco) una lingua incomprensibile, un maya che sembra inventato ma non lo è, dove «puzza» vuol dire «scappa» e non mancano le iperboli da western spaghetti: «Io scorticherò la tua pelle e tu mi guarderai mentre la indosso» minaccia il cattivo dei cattivi, Zero Wolf (Raoul Trujillo), un hell’s angels senza moto ma già di fumettistica grandezza. Così il protagonista buono della storia (che, questa volta, ha un finale sconosciuto) «Zampa di giaguaro», l’uomo medio, il maya qualunque, il cacciatore della foresta che vive lì dai secoli dei secoli con la sua patriarcale tribù, dipinta più come in un bozzetto pittoresco di De Heer che come nel documentario shock di Tonacci sugli indios amazzonici, è in pericolo. I poteri forti gli saccheggiano il villaggio, bruciano le capanne, stuprano, schiavizzano e decollano amici e donne, lo braccano, lo catturano, vorrebbero strappargli il cuore cuocerlo e mangiarlo mentre è ancora vivo e fargli tutto quel che resero quella civiltà madre di tutti gli horror. Ma sembra un giorno fortunato per «Zampa di Giaguaro» (l’attore nativo d’America Rudy Youngblood), deposta la moglie in salvo in un pozzo, grazie a un’eclissi di luna è liberato dai sacerdoti strafatti di peyote, e, come ha profetizzato una bimba oracolo, sfuggirà anche ai guerrieri maligni che vogliono, esageratamente, la sua morte. Passion incassò quasi 800 milioni di dollari nel mondo; questo Mayo Desnudo, scelto da Gibson come camera di decompressione per rientrare dai cieli divini nella storia degli uomini, non è piaciuto granché ai critici e neppure a mister Oscar ma fino al 31 dicembre aveva già al suo attivo più di 42 milioni di dollari in America. E questo nonostante le dichiarazioni antisemite del regista, di cui si poi era detto pentito su Entertainment Weekly, limitandosi a sbeffeggiare Jerry Lewis per il suo effeminato incedere, altro che il macho Zampa di Giaguaro. Il vigliacco sa che, negli States, tanto nessuno si scomoderà a difendere un vero, implacabile decostruttore della civiltà Usa, come «macchina della violenza» che, tanto esplicitamente, inebria eroticamente Mel Gibson.

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