La forza del disegno dove manca la parola

Leggo oggi sul Manifesto del 27 (che tempismo, eh?) una notizia che forse interesserà alcuni dei miei illustratori. La forza del disegno dove manca la parola – FRANCESCA LAZZARATO   Che si possa disegnare «l.indicibile» lo hanno ampiamente dimostrato artisti eccezionali come Art Spiegelman con il suo «graphic novel» Maus. A survivor.s tale (uscito per […]

Leggo oggi sul Manifesto del 27 (che tempismo, eh?) una notizia che forse interesserà alcuni dei miei illustratori.

La forza del disegno dove manca la parolaFRANCESCA LAZZARATO

 

Che si possa disegnare «l.indicibile» lo hanno ampiamente dimostrato artisti eccezionali come Art Spiegelman con il suo «graphic novel» Maus. A survivor.s tale (uscito per la prima volta nel 1986 e ormai un classico ristampato infinite volte, in Italia è ora edito da Einaudi) e come Pascal Croci con Auschwitz,  spettacolare bande dessinée creata insieme a Emmanuel Proust e pubblicata in Francia nel 2002 (l.edizione italiana del 2004 è a cura del NuovoMelangolo). Ma è possibile narrare la Shoah rivolgendosi ai bambini più piccoli, senza scadere nell.agiografia o fabbricare «santini» e sfruttando appieno le immense capacità metaforiche delle immagini? Gli illustratori che hanno raccolto questa sfida sono più numerosi di quanto si pensi . e per rendersene conto basta esaminare la vasta produzione soprattutto francese e americana di albi per l.infanzia . ma non sono poi molti quelli che l.hanno superata, riuscendo a trovare il difficilissimo equilibrio tra l.inevitabilità della rappresentazione diretta e la necessaria allusività. Tra quanti ci sono riusciti c.è senz.altro il francese Gilles Rapaport, autore dei testi brevissimi e delle folgoranti immagini di Champion, un libro appena uscito presso l.editore Circonflexe, in cui si racconta la storia del boxeur Victor «Young» Perez, ebreo franco-tunisino che divenne campione di Francia e poi del mondo, deportato ad Auschwitz nel 1943 e poi fucilato nel .45, durante la «marcia della morte». Nel suo libro, Rapaport ce ne racconta in breve la vita, passando dalle luminose immagini del quartiere juif di Tunisi ai toni scuri della vita nel lager, cui corrispondono spessi segni neri e tutta una gamma di blu e di viola che fanno da sfondo al combattimento ultimo di Young Perez. Perché ad Auschwitz il piccolo pugile (un peso piuma) fu costretto a infilare i guantoni e a battersi con una delle guardie del campo, un peso massimo, nella feroce e serissima parodia di un incontro sportivo. E vinse. Solo per un tempo, ma vinse. Una storia fuori del comune, dunque, che  ha trovato in Rapaport un interprete perfetto: la figura del pugile-prigioniero che riesce a battere il suo aguzzino si fonde con le parole del testo («Colpisci! Colpisci! Che quei colpi cancellino le loro sofferenze!») dipinte a grandi e violenti caratteri neri, l.esplosione di colori bui e i pochi tocchi vivaci mettono in scena uno spettacolo di morte, ma anche la determinazione a reagire, a non accettare la sconfitta, a rivendicare il diritto non solo alla dignità, ma anche al furore. Il messaggio è diretto e preciso come uno dei pugni di Perez e raggiunge allo stesso modo gli adulti e i ragazzi, che di fronte allo spessore pittorico e all.impatto emotivo del libro non potranno fare a meno di accorgersi quanto la vicenda del giovane pugile risulti esemplare: di fronte al dileggio espresso dalla finzione di un.assurda normalità (l.incontro, il ring, i guantoni regolamentari), Perez esprime la non accettazione della propria condizione di vittima e l.orgoglioso rifiuto della rassegnazione. Ugualmente bello è un altro album di Rapaport uscito nel 1999, Grand Père (Circonflexe), che si apre con la sagoma di un uomo  dal cranio rasato, vestito con l.abito a righe dei deportati, il cui bianco e nero contrasta con un fondo rosso vivo e con la stella gialla cucita sulla casacca. In poche pagine, l.autore racconta la storia di un uomo che ai primi del Novecento fugge a Parigi da una Polonia dove gli ebrei sono costantemente perseguitati, e che al momento della deportazione vede spezzarsi il filo dell.esistenza che si è costruito. La sua vita nel lager, la volontà che sostiene un corpo stremato e torturato, la liberazione, sono narrati con rara economia di tratti e di parole, utilizzando solo il grigio, il nero e il blu, che conferiscono una singolare efficacia a un libro per ragazzi, mai preso in considerazione dagli editori italiani. Nel nostro paese, del resto, questo modo di raccontare la Shoah è ancora relativamente trascurato, anche se c.è chi comincia a considerarlo con una certa attenzione (nel catalogo della Emme Edizioni, per esempio, esiste una bella biografia per immagini di Anna Frank, illustrata assai bene da Angela Barret). Eppure due dei più bei libri sull.argomento, ovvero Rosabianca (uscito nel 1990 per l.editore C.era una volta e oggi pubblicato da La Margherita) e La Storia di Erika (C.era una volta 2003), sono proprio di un illustratore italiano, Roberto Innocenti, che ha dedicato le sue tavole minuziose e magistrali alle storie di due bambine: una, polacca e «ariana», che la compassione induce a soccorrere i bambini di un lager e a morire con loro; l.altra, ebrea, salvata dal coraggio di due donne, la madre che la lancia fuori dal vagone piombato e l.estranea che la raccoglie, la nasconde, la cresce. All.equilibrio, all.eleganza e alla forza di questi due capolavori dell.illustrazione e dell.impegno civile, divenuti dei «classici» (cioè libri destinati a restare e dai quali non si può prescindere) nel momento stesso in cui sono apparsi, si potrebbero affiancare altri due titoli preziosi, sempre disponibili nei cataloghi e nel circuito librario americano: Dear Mili (1988) e Brundibar (2003) di un autenticomaestro, Maurice Sendak. Costruito attorno a una fiaba scritta da Wilhelm Grimm, Dear Mili (che nel 1989 ha avuto presso la Mondadori anche una edizione italiana, uscita quasi subito dal catalogo) non è una storia sulla Shoah e tuttavia non smette di rappresentarla, inserendola in  ogni illustrazione: nello sfondo si intravede il profilo lontano delle torrette dei lager, i nani che tornano dal lavoro sono in realtà deportati, il coro che canta nel giardino dove la protagonista giunge dopo aver attraversato la foresta è composto dai bambini di Izieu, morti con i loro insegnanti in un campo di sterminio. Da una illustrazione all.altra, il lettore deve seguire tracce e raccogliere indizi, individuando immagini che sono estranee al testo e che ce lo fanno leggere in un altro modo, trasformandolo in un viaggio dentro la sofferenza e verso un luminoso sollievo finale: la memoria, il tempo che non procede in linea retta ma continuamente si ripiega su stesso per congiungere il presente e il passato, mostrandoci quanto strettamente siano intrecciati. Questo modo di raccontare trasversale e metaforico si ritrova anche in Brundibar, ispirato all.opera messa clandestinamente in scena per la prima volta in un orfanotrofio ebraico di Praga, nell.inverno 42-43 (la maggior parte degli artisti che vi avevano partecipato finirono ad Auschwitz, dove la rappresentarono per i bambini deportati ). La storia di Pepicek e Aninku, che organizzano una piccola corale per raccogliere il denaro necessario a curare la madre ammalata, sembra non avere alcun rapporto con i campi di sterminio, e invece non fa che mostrare in controluce lo spirito di resistenza dei protagonisti (ai quali si sovrappone con tutta evidenza l.immagine dei piccoli deportati), che si sforzano di cantare più forte del perfido Brundibar, il suonatore di pianola. Un giocattolo tradizionalmente «tenero»,  ovvero l.orsacchiotto, è invece il protagonista della storia scritta e illustrata da un grande artista francese, Tomi Ungerer, che in Otto (Mondadori 2003) narra la storia di un orsacchiotto di pezza travolto dalla guerra, esattamente come i due piccoli tedeschi, uno ebreo e uno no, che usavano giocare con lui, e che, ritrovandolo nella vetrina di un rigattiere, riscoprono da vecchi l.amicizia che li ha legati da bambini. Un altro libro notevole (un po. mortificato dal formato, purtroppo) che affronta l.argomento con sapienza, passando attraverso la «biografia» di un oggetto familiare e amato per arrivare a quella di una generazione intera. Peccato che di libri del genere non ce ne siano di più. Ma se i nostri editori sembrano, almeno per adesso, accogliere con una certa timidezza queste rappresentazioni della Shoah ad usum puerorum (e non solo), bisogna dire che gli illustratori sono più avanti di qualche passo: il 27 gennaio, infatti, si inaugura a Pavia, nella Sala dell.Annunciata, Matite per la memoria, una mostra di disegnatori italiani che hanno dedicato alcuni dei loro lavori al tema. Una iniziativa che continua già da qualche anno, ricca di suggestioni per chi si occupa di libri per l.infanzia.

 

 

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