Il capro espiatorio

Goya, 3 maggio 1808 (Gli orrori della guerra) No, non sto per parlare di Asteron (mi spiace per chi non coglierà il riferimento). Raramente indugio nella cronaca in questa sede, ma non potevo soffermarmi sulla notizia della condanna a morte di Saddam. Non che nutrissi particolari speranze, naturalmente… in ogni caso, per chi volesse saperne […]

Goya, 3 maggio 1808

Goya, 3 maggio 1808 (Gli orrori della guerra)

No, non sto per parlare di Asteron (mi spiace per chi non coglierà il riferimento).
Raramente indugio nella cronaca in questa sede, ma non potevo soffermarmi sulla notizia della condanna a morte di Saddam. Non che nutrissi particolari speranze, naturalmente… in ogni caso, per chi volesse saperne di più e non avesse tempo di leggersi tutta la rassegna stampa di oggi, consiglio un agile articoletto di Antonino D’Anna intitolato "Perché Saddam deve morire" comparso ieri su Affari italiani, il quotidiano on-line ospitato da libero.
Per quanto mi riguarda, non è che l’ennesimo passo indietro causato dagli Stati Uniti in un quadro internazionale che non sembra proteso verso la direzione che qualche secolo di conquiste sociali e giuridiche ci indurrebbero ad auspicare.
Ecco invece cosa ci offrono i giornali di oggi (grazie di esistere a Lorenzo, che ogni giorno stila una splendida rassegna stampa oltre a tenermi costantemente aggiornata via e-mail sulla situazione in Medio Oriente):


Repubblica (06/11/2006)
Il boomerang iracheno: la condanna di Saddam una vittoria fragile? – BERNARDO VALLI
Per George W. Bush il tiranno iracheno è il solo trofeo di una guerra sfortunata da esibire. Ed era scontata la condanna a morte del mandante ed esecutore di tanti massacri emessa ieri dal tribunale speciale di Bagdad, espressione della giustizia irachena ma certo non affrancato rispetto alla superpotenza che ha abbattuto e custodisce quel tiranno. E che, soprattutto, argina l’insurrezione armata, della quale Saddam Hussein è il capo simbolico. Anche chi, per principio, è contrario alla pena capitale, ed è il nostro caso, avrebbe considerato singolare, o addirittura sorprendente, una sentenza meno drastica in un Paese in cui il sangue, spesso di innocenti, scorre quotidianamente più puntuale dell’acqua potabile, e dove in carcere si è più al sicuro che per le strade. Dopo queste constatazioni, sono di rigore alcuni non insignificanti rilievi. Il verdetto che manda Saddam Hussein al capestro, rispolvera il trofeo di George W. Bush, del quale ci si era quasi dimenticati. E lo esibisce proprio alla vigilia di un importante voto americano sul quale pesa il disastroso bilancio della guerra irachena. I crimini del regime spazzato via dalle truppe americane entrate a Bagdad nella primavera del 2003 non sono stati cancellati. Quel che è accaduto dopo e sta ancora accadendo non li ha mandati in prescrizione. I massacri di curdi e di sciiti, a volte anche con armi chimiche, sono stampati nelle memorie e sono ancora all’origine di molte vendette. Ma i seicentocinquanta mila morti civili iracheni (secondo la rispettabile rivista britannica "Lancet") dall’inizio dell’intervento americano, e la media di oltre cento vittime quotidiane, cosi come l’esodo di più di un milione di iracheni verso i paesi vicini, spingono la popolazione delle province centrali, dove più infuria la violenza, a rimpiangere i tempi in cui Saddam imponeva l’ordine col terrore. Il verdetto del tribunale speciale di Bagdad riguarda il massacro di 148 sciiti nel villaggio di Dujail, dopo un fallito attentato alla vita del rais, vale a dire una delle tante repressioni, non la più grave. In molte altre occasioni le vittime sono state migliaia. La pena di morte inflitta a Saddam "per crimini contro l’umanità" in questo primo processo sembra voler ricordare al momento opportuno, agli elettori americani, che se Saddam non possedeva le armi di distruzione di massa e non era complice di Al Qaeda, e quindi degli attentatori delle Torri Gemelle di New York, come pretendeva a torto Bush per giustificare la guerra, egli resta comunque un dittatore sanguinario che l’America ha spodestato e consegnato alla giustizia del suo paese. È impossibile contestare questa verità, riproposta non solo agli americani. È vero, dunque, l’America di Bush ha cacciato un criminale dal potere in un grande paese del Medio Oriente. Ma come un ingegnere che, dopo accurati calcoli, estirpa una trave marcia e fa crollare un edificio, cosi Bush ha eliminato Saddam con un’impeccabile e rapida operazione militare durata pochi giorni, ma ha provocato un conflitto che dura da anni e di cui non si vede la fine. Il processo al criminale Saddam appare come un episodio della guerra civile che Washington continua a definire "latente", e che in effetti dilagherebbe, con maggior violenza, se i centoquarantamila soldati americani se ne andassero. Se George W. Bush avesse voluto un processo regolare, se avesse voluto una giustizia imparziale, avrebbe consegnato Saddam Hussein al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja. Il processo, è vero, sarebbe durato anni e non si sarebbe concluso con una condanna a morte, perché il TPI esclude la pena capitale, ma ci sarebbe stato un dibattimento trasparente, lontano dalle passioni di una guerra civile. L’Amministrazione americana non poteva tuttavia consegnare Saddam a una giurisdizione che essa non riconosce. Gli Stati Uniti, come altre potenze, tra queste la Cina e la Russia, non hanno infatti ratificato il trattato che ha istituito il TPI. Né Washington, né Mosca, né Pechino vogliono correre il rischio di vedere un giorno i propri responsabili sul banco degli imputati. E in tutti i modi non era gradito un processo durante il quale sarebbero emerse le innumerevoli complicità tra Saddam e gli americani, in particolare quando Saddam era il potente rais laico che si opponeva all’islamismo iraniano. Durante la guerra Iran-Iraq, egli rappresentava la grande diga di fronte alla Repubblica islamica di Khomeini. E quando, dopo la prima guerra del Golfo (1991) annientò la guerriglia sciita nel Sud dell’Iraq, gli americani che l’avevano favorita e illusa, lasciarono Saddam agire indisturbato. Di questo non si è parlato nell’aula bunker del tribunale speciale iracheno. Ero a Bagdad, lo scorso anno, durante le prime udienze. Saddam sorprese tutti. Non era più, come al momento della cattura, il barbone pidocchioso emerso da una tana scavata in una fattoria vicino al suo villaggio natale. Non aveva più lo sguardo smarrito e l’atteggiamento sottomesso di quando un militare americano, un medico, gli apri la bocca come si fa con gli animali per verificare il suo stato di salute. Allora era sembrato addomesticato. Rassegnato. Si disse poi che quella sua apparizione sui teleschermi era stata sceneggiata, al fine di mostrarlo ammansito, innocuo, ai sunniti che lo credevano alla testa dell’insurrezione armata. Mesi dopo in tribunale aveva ripreso un po’ della vecchia grinta. Era curato nella persona: i capelli ben ravviati, la barba grigiastra tagliata con cura, la camicia bianca pulita. E lo sguardo attento, non tuttavia freddo, fulminante come un tempo. La perdita del potere l’aveva disinnescato. Era diventato ironico. Il despota che aveva ucciso con le sue mani nemici o presunti nemici, che aveva ordinato stragi e ordito complotti, e del quale pochi osavano incrociare lo sguardo, si difendeva con qualche battuta più sarcastica che arrogante. Rivendicava soprattutto il suo ruolo di presidente della Repubblica e di militare. Rifiutava di apparire un volgare assassino, Seguendo questa linea di condotta disse poi che voleva essere fucilato, come un soldato, e non impiccato come un delinquente. La condanna a morte di ieri prevede la forca, l’impiccagione. Le immagini di Saddam davanti ai giudici riaccesero le passioni. I sunniti rividero il rais; gli sciiti il despota. I primi riconobbero il leader che aveva garantito l’antica egemonia sunnita nel paese e si sentirono solidali con lui; i secondi l’uomo che li aveva repressi e umiliati, e invocarono la sua condanna a morte. I sentimenti erano in armonia con gli ammazzamenti sempre più frequenti tra sunniti e sciiti. I primi in generale solidali con l’insurrezione armata, i secondi con la polizia e l’esercito armati e pagati dagli americani. Chi aveva pensato che la cattura e il successivo processo di Saddam avrebbero via via smorzato la guerriglia saddamista, staccandola dalla componente cosmopolita, terroristica e islamista, dovette molto presto ricredersi. La violenza è aumentata e aumenta al punto da convincere un numero sempre più robusto di generali americani e inglesi che la partita irachena non può essere vinta dall’esercito più potente del mondo, e forse della storia. La parola "caos" ricorre sempre più spesso ad indicare una situazione che sfugge ad ogni azione razionale, militare o politica. In queste condizioni la giustizia affidata a un tribunale governativo, finanziato dalla superpotenza protettrice, non poteva essere che di parte. Ha agito nel quadro di una guerra civile. Non esistevano e non esistono dubbi sui crimini di Saddam. Ma chi l’ha giudicato l’ha fatto con lo spirito di chi partecipa, appunto, a una guerra civile. Gli americani non volevano assumersi quel compito, in quanto "vincitori", e l’hanno lasciato agli iracheni. I quali non erano nelle condizioni di rispettare una procedura normale. Il primo ministro, Nuri Kamal al-Maliki, uno sciita, è stato chiaro quando, subito dopo la sentenza, ha dichiarato che essa servirà da esempio ai terroristi. Se il conflitto iracheno, come lasciano chiaramente intendere i generali americani, non sembra risolvibile sul piano militare, la condanna a morte (benché non esecutiva immediatamente), compromette qualsiasi, sia pur remota, possibilità di aprire uno spazio politico. Complica senz’altro la situazione. Gli elementi sunniti del governo Maliki, che puntavano su un recupero della componente saddamista dell’insurrezione armata, contaminata ma non del tutto sopraffatta dai terroristi cosmopoliti ispirati da Al Qaeda, si scontrano inevitabilmente a un irrigidimento dei capi della guerriglia che vedono in quella sentenza un atto ostile nei loro confronti, e un prevalere dell’intransigenza sciita. L’intransigenza sciita si esercita sempre di più anche nei confronti degli americani. Il primo ministro Maliki, consapevole di non poter fare a meno del loro sostegno, chiede agli americani di restare almeno un altro anno, ma al tempo stesso esige che gli sia dato più potere nella conduzione del conflitto. Nonostante la scarsa efficienza della polizia e dei reparti militari iracheni, chiede che essi agiscano sotto la sua autorità, e non soltanto sotto quella del comando americano. E non si limita a questo, pretende anche di partecipare alle decisioni riguardanti le operazioni dell’esercito americano. La debolezza di Maliki è compensata dal fatto che gli americani non possono fare a meno di lui. La comunità sciita è frantumata in un mosaico di milizie, spesso in aperta tenzone tra di loro, e sempre più intolleranti nei confronti della presenza americana, ma al tempo stesso esse costituiscono la base indispensabile per contenere l’insurrezione armata sunnita. Gli americani vorrebbe che Maliki le disciplinasse, ma Maliki non ha la forza e forse neppure la volontà di agire in quella direzione. Questo è il "caos" di cui parlano i generali, quando ritornano in patria. La trappola irachena funziona inesorabile. Se abbattuto il tiranno si è disgregato il paese, adesso la sua condanna alla forca, giustificata ma decisa in modo sommario, promuove il rais al ruolo di martire e simbolo della rivolta sunnita, e alimenta al tempo stesso l’intransigenza sciita che punta su una rapida esecuzione della sentenza. Il trofeo di Bush continua a trasformarsi in un boomerang.

Il processo senza giustizia con un verdetto farsa – ANTONIO CASSESE
Anche a Norimberga i vincitori hanno processato i vinti. Ma almeno il processo è stato equo. A Bagdad si è invece celebrata, per i fatti di Dujail, una farsa. I giudici sono stati nominati dall’esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall’Assemblea nazionale irachena, nell’agosto 2005. Imputazioni precise contro gli otto imputati sono state formulate solo a metà processo. La Corte non ha consentito alla difesa di convocare un certo numero di testimoni a discarico che dovevano ancora essere ascoltati. Inoltre, molti documenti prodotti dall’accusa contro gli imputati (tra cui l’ordine di Saddam Hussein di eseguire la condanna a morte inflitta ai civili che avrebbero attentato alla vita del dittatore e l’ordine di conferire onorificenze alle forze di sicurezza che avevano arrestato e interrogato i presunti colpevoli), sono stati contestati dalla difesa, che ha affermato trattarsi di falsi. Per verificarne l’autenticità, il tribunale non ha convocato esperti internazionali (come sarebbe stato doveroso), ma esperti iracheni che, secondo la difesa, erano legati a filo doppio all’attuale ministero dell’interno iracheno. Insomma, un processo privo di qualsiasi seria garanzia dei diritti della difesa. Certo, non è facile processare un ex dittatore che cerca di usare le udienze pubbliche per comizi e polemiche politiche. I giudici però non avrebbero dovuto rispondere alle arringhe pretestuose dell’ex-dittatore urlando più di lui o espellendolo dalla sala delle udienze, ma con equilibrio e serenità, limitando ad esempio il suo tempo di parola, inducendolo a discutere i problemi specifici del processo, e soprattutto affrontando seriamente i problemi giudiziari che gli avvocati di Saddam sollevavano. In una parola, mostrandosi pazienti, equilibrati ed imparziali. La condanna a morte dei tre maggiori imputati è sbagliata sotto un triplice profilo. Anzitutto, si tratta di una punizione che non è affatto credibile perché conclude un processo-farsa. In secondo luogo, la pena capitale è stata oramai condannata dalla vasta maggioranza della comunità internazionale. Anche se paesi come gli USA e la Cina continuano a praticarla, si può dire che la pena di morte è diventata, sul piano internazionale, se non illegale, almeno illegittima. Prova ne sia che tutti i tribunali internazionali finora istituiti dalle Nazioni Unite (alcuni, come quello dell’Aja per l’ex Jugoslavia e quello per il Ruanda, con il fortissimo sostegno degli americani) bandiscono la pena di morte. Lo stesso vale per la Corte penale internazionale, il primo tribunale internazionale a vocazione universale, che oramai agisce come suprema istanza penale internazionale per ben 104 Stati. In terzo luogo, la pena di morte inflitta ai tre imputati costituisce un grave errore politico, perché naturalmente aggraverà la situazione in Iraq. Il paese è da tempo in preda ad una sanguinosa guerra civile, anche se i vertici statunitensi, per ragioni politiche, si ostinano a negare che sia in atto una vera e propria insurrezione armata. Saddam Hussein diventerà un martire, oltre ad essere già considerato un eroe dell’antiamericanismo. L’odio per il gruppo dirigente iracheno e per gli americani aumenterà a dismisura e i massacri si moltiplicheranno. L’appello che subito interporranno i condannati non potrà che rinviare l’esecuzione capitale, anche in attesa che vengano celebrati contro l’ex dittatore altri processi, per fatti, tra cui il genocidio dei Curdi negli anni ’80, che appaiono obiettivamente molto più gravi del massacro di Dujail. In breve, in Iraq anche sul versante della giustizia è stata imboccata una strada radicalmente sbagliata, e appare assai probabile che si arriverà alla peggiore soluzione possibile.


Il riformista (06/11/2006)
Non si fa così il processo a un tiranno
Anna Momigliano riferisce qui sotto del possibile impatto della condanna a morte di Saddam Hussein sulle elezioni americane di mezzo termine, in programma per martedì. Poche ore appena, e sapremo se la sentenza capitale del Tribunale speciale iracheno avrà segnato davvero un punto importante in favore di George W.Bush, che ha finalmente un motivo per esultare; o se invece è giunta troppo tardi per influenzare gruppi significativi di elettori in un paese, gli Stati Uniti, che sembra interrogarsi sempre meno sui risultati, comunque assai peggio che mediocri, conseguiti sin qui con l’intervento militare in Iraq, e sempre più su come lasciarsi alle spalle in fretta, se possibile senza conseguenze catastrofiche, una guerra politicamente, e non solo politicamente, perduta. Vedremo. Già adesso, però, c’è molto da riflettere, anche e soprattutto per chi come noi non ha mai professato un pacifismo integrale, senza se e senza ma, su questa sentenza più che annunciata, e sui suoi possibili effetti. Con la premessa (d’obbligo, ma non scontata) che per noi il motto “Nessuno tocchi Caino” vale sempre e sotto ogni cielo. Dunque, anche in Iraq. Dunque, anche se il condannato a morte si chiama Saddam Hussein, e se non c’è dubbio alcuno, perché lo ha riconosciuto lui stesso, che della strage di 148 sciiti a Dujail, nel 1982, è stato il mandante, così come di altre innumerevoli efferatezze contro il suo popolo della grande maggioranza delle quali il processo di Baghdad ha preferito non occuparsi. Perché i giudici non lo abbiano fatto, e perché in ogni caso l’amministrazione americana non glielo avrebbe fatto fare, lo ha spiegato con chiarezza esemplare ieri, sul Corriere, Sergio Romano: Saddam è stato processato e condannato per singoli episodi perché se il processo avesse avuto per oggetto il suo regime criminale sarebbe stato impossibile impedire all’imputato «di invocare per difendersi sia il contesto internazionale sia le molte complicità di cui ha goduto nel corso della sua lunga carriera politica». Ricordando al mondo, per esempio, i suoi incontri a Baghdad con Donald Rumsfeld, negli anni Ottanta. O «l’implicita licenza di reprimere la rivolta sciita che ricevette da Bush padre dopo la fine della guerra del Golfo». Certo non solo per questo, ma anche per questo, il processo a Saddam, il più sicuramente colpevole degli imputati, è risultato assai simile a una farsa, che scredita la giustizia irachena (e questo sarebbe onestamente il meno, in un paese in cui il capo del governo si è appellato in continuazione ai magistrati perché gli facilitassero il compito mandando a morte il despota deposto dagli americani) e rende più difficile la strada, già assai ardua, verso una giustizia internazionale degna di questo nome. È assai probabile, anzi, è certo, che le cose non potessero andare diversamente, una volta deciso di affidare il processo agli iracheni, per trasformarlo in una sorta di atto fondativo del nuovo regime. Ma questa non era una decisione obbligata: bastava volerlo, e Saddam avrebbe potuto benissimo essere giudicato, a l’Aja e forse persino a Baghdad, dal Tribunale penale internazionale: come ha osservato giustamente ancora Romano, si sarebbe evitata una condanna a morte che rischia di rendere ancora più incerta e drammatica la situazione in Iraq, e si sarebbero garantite al giudizio più trasparenza e, aggiungiamo noi, più garanzie e soprattutto più verità. Peccato, peccato davvero che gli americani, che il trattato istitutivo del Tpi si sono rifiutati di ratificarlo, non ci abbiano pensato neanche per un attimo. E che, per quanto ne sappiamo, pochi, pochissimi abbiano avuto il coraggio di sollevare apertamente la questione quando era il caso di farlo. P.S. A proposito dell’intervento militare in Iraq, e del cinismo che, a quanto pare, non ha limiti: adesso Richard Perle (avete capito bene: Richard Perle) sostiene che, se fosse stato l’oracolo di Delfi, si sarebbe opposto alla guerra. Gli ha risposto assai bene (per una volta) Edward Luttwak in un’intervista alla Stampa: le capacità oracolari non c’entrano, se Perle avesse dedicato alla realtà irachena la stessa attenzione che dedica al menù dei ristoranti dove cena, avrebbe capito senza troppe difficoltà in quale guaio si stavano andando a cacciare gli Stati Uniti e il mondo. Per noi va bene così. Quanto agli estimatori e ai tifosi italiani di Perle e compagnia, attendiamo di sapere.


Il Corriere della Sera (06/11/2006)
Francia e Germania non vogliono rompere con Blair – Giuseppe Sarcina
BRUXELLES – Gli inglesi, ancora una volta, fuori dal «coro europeo». Il ministro dell’Interno, John Reid, ritiene «una conquista per l’Iraq» la condanna a morte di Saddam Hussein. Nel resto d’Europa, invece, da Parigi a Berlino, da Roma a Madrid, si «prende atto» della sentenza emessa a Bagdad da un tribunale legittimo, ma si sottolinea la contrarietà «storica» alla pena capitale. Il «caso Saddam» si riapre proprio nella «settimana della Turchia». Mercoledì 8 novembre la Commissione europea licenzierà un rapporto negativo sullo stato delle riforme ad Ankara. Da lì comincerà una discussione accesa tra i governi della Ue: congelare i negoziati? Andare avanti comunque? In effetti esiste ormai un lungo filo che collega il dopoguerra iracheno, la missione di pace in Libano, il rapporto con i paesi musulmani e dunque, in primo luogo con la Turchia. È su questi capitoli che si sta sperimentando, nei fatti, la possibilità di avere una «politica estera comune», dopo le lacerazioni seguite all’invasione angloamericana dell’Iraq nell’aprile 2003. Se è così, si spiega più facilmente perché ieri i governi di Francia e Germania abbiano messo da parte sorpresa e imbarazzo e abbiano scelto la strada della massima prudenza. Commenta un diplomatico alle dipendenze di Parigi: «La guerra in Iraq è finita da tempo e con essa le polemiche tra noi europei. La Francia ribadisce le sue convinzioni sulla pena di morte, ma non ha certo intenzione di prendere spunto dalla condanna di Saddam Hussein per riattizzare i contrasti con la Gran Bretagna». Sullo stesso tono il ragionamento che arriva dai rappresentanti tedeschi a Bruxelles: «La Cancelliera Angela Merkel ha ricordato che la Germania è tradizionalmente contro la pena di morte». Punto. Come dire: facciamo finta di non aver sentito i ministri inglesi e pensiamo ad «andare avanti». Ieri la presidenza di turno finlandese ha chiesto in modo esplicito alle Autorità irachene di «non eseguire il verdetto» nei confronti dell’ex dittatore iracheno. Si vedrà nei prossimi giorni se l’iniziativa di Helsinki sarà sottoscritta senza riserve anche da Londra. Un osservatore privilegiato come Graham Watson, scozzese, capogruppo dei liberaldemocratici all’Europarlamento, dice di essere «deluso e preoccupato»: «La posizione degli inglesi risponde più al richiamo degli Stati Uniti che alla linea classica dell’Europa. Non sono sorpreso, ma contrariato sì, perché così Londra potrebbe tornare a essere elemento di instabilità e di rischio per la costruzione di una politica estera europea».

Esecuzione a primavera. Niente pubblico e tv – Michele Farina
BAGDAD – Quando sarà impiccato, probabilmente un giorno della prossima primavera, Saddam Hussein non avrà ancora compiuto 70 anni e non sarà solo. Oltre al boia che gli infilerà il cappio intorno al collo, avrà intorno a sé cinque o sei persone. Non ci sarà posto per il pubblico. Un’esecuzione forse ripresa dalle telecamere, quasi certamente condotta in una prigione irachena, il cui filmato se sarà girato non andrà mai in onda. Nessun collegamento televisivo. L’impiccagione di Saddam, come quella degli altri due imputati condannati ieri – il fratellastro Barzan Ibrahim al-Tikriti, ex capo della polizia segreta, e Awad al-Bandar, presidente del Tribunale Rivoluzionario – non sarà trasmessa. Non ci sono notizie ufficiali su quali saranno le modalità di esecuzione. Ma il giudice Rizgar Amin, presidente della corte che ha giudicato gli otto imputati prima di essere rimosso a gennaio, ha rivelato alcuni dettagli che fanno intravedere la scena di quella che qualcuno a Bagdad ha già ribattezzato «l’impiccagione del secolo». Sarà condotta in una prigione di Bagdad, non diversamente dalle decine di condanne a morte eseguite negli ultimi due anni. Non è chiaro quale. Di certo non avverrà nella famigerata Abu Ghraib, alle porte della capitale dove sotto il vecchio regime il boia ha impiccato migliaia di persone al termine di processi sommari, ora tornata sotto il controllo iracheno. E non avverrà neppure nel penitenziario di Camp Cropper, all’interno della base americana dove l’ex dittatore ha vissuto dopo la cattura nel dicembre 2003. Ad assistere all’esecuzione – ha detto il giudice Amin dalla sua residenza di Suleimanya, in Kurdistan – ci saranno solo funzionari. Un magistrato dell’accusa, un giudice, il direttore del penitenziario, un rappresentante del ministero degli Interni. Oltre a un dottore chiamato a certificare l’avvenuto decesso. Su richiesta di Saddam, potrà essere presente un imam sunnita. Prima di salire al patibolo, al condannato sarà concessa la possibilità di una dichiarazione finale: le sue ultime parole. La famiglia dovrà essere avvertita, dando la possibilità ai parenti di far visita a Saddam il giorno prima che la sentenza venga eseguita. Il corpo di Saddam sarà consegnato alla famiglia oppure sepolto dalle autorità, senza cerimonia funebre, a spese del governo.


La Stampa (06/11/2006)


Vanità di leone – Igor Man
«Al‘ar», vergogna. Così avrebbe sillabato Saddam Hussein abbandonando l’aula del tribunale speciale che lo ha condannato a morte per crimini contro l’umanità. Fresco di doccia, petto in fuori, l’immancabile Corano brandito con le due mani (ferme), il dittatore ha ascoltato la sentenza gli occhi rivolti al cielo. Ma quando il giudice s’è taciuto, Saddam ha detto: «Allahu akbar, Dio è grande. Gli sconfitti siete voi, non il raîss Saddam Hussein al Takriti». E qui «jalla», andiamo, ha intimato ai muscolosi uomini della scorta (già estratti a sorte). Il «vergogna» lo avrebbe scandito uscendo di scena. Saddam, a detta dei suoi avvocati che denunciano l’illegalità del processo (ma è tutto un giuoco delle parti), «esige» la fucilazione al petto, «da soldato». Si dà il caso, tuttavia, che Saddam Hussein non abbia fatto un solo giorno di naja. I galloni di comandante supremo glieli ha dati il sarto. Per i suoi vecchi compagni di scuola, è la vanità il «tratto debole» del tiranno iracheno. Descritto, per altro, come un uomo senza stati d’animo. «Un leone fra i lupi», un «criminale che prima di uccidere prega». Non sappiamo se Saddam veramente preghi. Sappiamo ch’egli è un baasista (da Baas, il partito socialista arabo) invero laico anche se si è fatto pellegrino umiliandosi alla Mecca, come tutti i bravi musulmani. Anche se a partire dalla prima guerra del Golfo (l’invasione del Kuwait) la sua sfida agli Stati Uniti «e ai loro complici» s’accende d’accenti coranici. Ma, forse, il suo unico e grande ispiratore, il suo Virgilio politico, diremo, è stato Michel Aflak, il fondatore, con Salah Bitar, del Baas, il partito nazionalsocialista, vera spina dorsale dell’Iraq. Di Saddam s’è sempre detto ch’egli abbia succhiato dalla madre latte e nazionalismo. La brava donna lo manda a scuola ma il ragazzo a 8 anni non sa né leggere né scrivere tuttavia ha già imparato a tirar di pistola. A 10 anni fugge di casa e uno zio, ufficiale epurato, lo accoglie convincendolo a studiare. Saddam recupererà gli anni perduti tanto rapidamente da guadagnare il liceo al Kharkh di Baghdad, fucina di attivisti antinglesi. Saddam nel 1955, viene ammesso nel Baas. Entra nel servizio di intelligence e sicurezza del partito: la scelta lo porterà lontano. Il 14 di luglio del 1958, il colonnello Kassem prenderà il potere con un colpo da manuale. Mentre la radio trasmette la Marsigliese la folla fa letteralmente a pezzi la famiglia reale. In quel giorno terribile giunsi a Baghdad da Beirut noleggiando (con 7 colleghi stranieri) un tremolante Dc3 pilotato da un inglese alcolizzato: giusto in tempo per vedermi offrire, al modico prezzo di 2 fils, un pezzettino di carne tumefatta dalla calura, «garantito» per quello d’un braccio del principe reggente. Sennonché Kassem, un gay nascosto, scontenta presto il Baas che ne decide l’eliminazione. Nel gruppo di fuoco incaricato di far fuori il tiranno c’è Saddam. Nello scontro Saddam rimane ferito a un piede ma riesce a riparare in casa d’un «compagno». Dopo la cruenta fine di Kassem, rientra a Baghdad e subito fomenta un golpe che abortisce. Lo attende la forca ma riesce a evadere dopo aver strozzato il secondino al quale, dice la vulgata, caverà un occhio: «per ricordo». Allorché, il 17 di luglio del 1968, il Baas conquista il potere, Saddam, diventerà il numero 2 del regime. Quando lo incontrai, nel settembre del 1974, Saddam era un bell’uomo alto e magro, avvolto in un lungo burnus nero, il viso scavato, gli occhi come due schegge di ossidiana. Mi colpì la sua stretta di mano: pastosa, avvolgente. Fu la classica «intervista rubata». Forte di una promessa (bugiarda) del dittatore tornai a Baghdad nell’estate cupa del 1979. Mi ricevette subito ma per immediatamente versarmi nelle braccia d’un tremebondo ministro dell’Informazione. Ma quel viaggio non fu inutile: circolava intorno ad ogni cosa, un’aria triste, un’aria tormentosa (per citare Saba) – la gente parlava di banalità, i giornalisti locali ti recitavano tutti lo stesso articolo, nessuno osava telefonare. Scoprii un Paese oppresso dal terrore. Infine ad Amman trovai esuli iracheni che mi fecero un quadro terrificante di come si viveva a Baghdad, nell’Iraq. Solo i giovani, la sera, teneramente abbracciati, andavano a mangiare il pesce sulla brace, in riva al Tigri. All’apparenza la vita scorreva davanti ai tuoi occhi normalmente. Ma dietro quello schermo soffriva un Paese oppresso da una dittatura implacabile. Churchill diceva d’aver disegnato l’Iraq «per vincere la noia del fine settimana». Ma quel disegno fu un capolavoro di irresponsabilità. Oggi ci rendiamo conto che per tenere insieme curdi, sciiti, sunniti, con le varie tribù complicate nel mucchio, altro rimedio non c’era se non quello di Saddam, bastone e carota. Lui, il dittatore, pagava i capi tribù allineati, mandava a morte, dopo debita tortura, quelli che facevano i galletti. Certamente Saddam era odiato, persino dai suoi famigliari, dai vecchi compagni di Tikrit. Epperò era rispettato. Saddam era riuscito a creare quel ch’egli stesso definiva «un vincolo di sangue» coi suoi disgraziati compatrioti. In particolare coi più giovani. Il sangue è una importante componente della storia personale e della personalità stessa di Saddam. Riandando ai suoi trascorsi giovanili, questo lo si può capire, meglio: spiegare. Ma lo è altresì d’una gente, quella irachena, che vuoi o non vuoi ha subito culturalmente (e tuttora subisce) il fascino del martirio, e dunque del sangue, tipico dello sciismo, che copre il 60 per cento della popolazione e custodisce le città sante dell’islam. Se non fosse per questo «vampirismo psicologico» proprio degli sciiti perché mai gli scolari avrebbero cantato con trasporto: «Saddam, Saddam / quando daremo / il nostro sangue per te»? Forse il caos sanguinoso che sta triturando un Paese di arabi seri, faticatori, è la conseguenza d’un «fatto naturale»: i ragazzini plagiati dal culto del sangue sono cresciuti e in lui si riconoscono: se non altro quelli che conducono la piccola guerra che sfinisce e dissangua i GI. Si riconoscono nel leader che combatte contro lo straniero che viene da lontano pretendendo di imporre la sua legge, quell’«oggetto misterioso» ch’è la democrazia. Sicuramente il terrorismo di Bin Laden giuoca un ruolo non trascurabile nella guerra civile a bassa intensità che massacra l’Iraq. Ma Bin Laden è solamente un’icona. Nella realtà a far la guerra urbana sono i sunniti, una minoranza minacciata di estinzione. Essi combattono gli sciiti, nel tentativo di frenarne lo straripamento. Gli esperti osservano che gli «insorgenti» non hanno un manifesto politico. Non ce l’hanno perché non vogliono averlo: per gli «insorgenti» il nemico numero 1 è la maggioranza sciita, poi vengono gli americani. Questo, forse, spiega il messaggio che Saddam ha voluto, tramite i suoi avvocati, venisse diffuso alla vigilia della sentenza (scontata). Saddam si rivolge agli americani indirettamente suggerendo loro di combattere «il vero nemico», vale a dire la «valanga sciita». Saddam verrà impiccato. Ma il processo ha fallito in pieno il suo obiettivo ch’era, ovviamente, politico. Saddam, ogni giorno che passa, ancorché lentissimamente, torna a incarnare la figura del raîss, padre crudele ma padre. Gli «insorgenti» fanno fuori i terroristi della rivoluzione jihadista divisa in due tronconi: uno assolutamente sciita e per tanto proteso verso il martirio, che l’iraniano presidente Ahmadinejad prepara a una vera e propria controcrociata – l’altro troncone, invece, si riconosce nella ’al Qaida che si ispira al rigore purista del sunnismo wahabita. Su questo sfondo, la condanna di Saddam figura come un episodio (crudele per chi come noi è contro la condanna a morte) che non avrà impatto alcuno in Iraq, Paese mosaico verosimilmente destinato ad annegare in un mare di sanguinose contraddizioni.

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