Nel centenario di San Pietro

La cupola di San Pietro Articolo dal Manifesto di oggi. Nella fabbrica del Cupolone, cinque secoli dopo Il gran modello della cupola di San Pietro, forse il più celebre dell’architettura occidentale, è esposto all’ingresso del Braccio di Carlo Magno al Vaticano, dove è allestita la mostra «Petros Eni – Pietro è qui» (fino all’8 marzo) […]

La cupola di San Pietro
La cupola di San Pietro


Articolo dal Manifesto di oggi.

Nella fabbrica del Cupolone, cinque secoli dopo
Il gran modello della cupola di San Pietro, forse il più celebre dell’architettura occidentale, è esposto all’ingresso del Braccio di Carlo Magno al Vaticano, dove è allestita la mostra «Petros Eni – Pietro è qui» (fino all’8 marzo) per celebrare il quinto centenario dalla posa della prima pietra che servì alla costruzione della nuova Basilica. Questo «clone imponente» – così l’ha definito il curatore della mostra Antonio Paolucci – fu fatto iniziare da Michelangelo nel 1558 e fu completato tre anni dopo. Non che rappresentasse il progetto definitivo della cupola, tuttavia era lo strumento necessario per l’ideazione delle sue migliori soluzioni progettuali e del loro controllo visivo. Il modello come «elaborato di studio» subì modifiche da parte dello stesso Michelangelo, soprattutto per quel che riguardava il tamburo; ma conobbe manomissioni anche da parte degli altri architetti che continuarono a lavorare alla fabbrica di San Pietro anche dopo la sua morte: da Giacomo Della Porta, che portò a compimento l’opera, a Luigi Vanvitelli che si occupò del suo restauro. I «problemi interpretativi» posti dalla cupola sono solo una parte, tra le più rilevanti, di quelli che nella lunga storia della basilica lo storico è chiamato ad affrontare e che la mostra nei suoi intenti celebrativi e nella selezione ristretta dei documenti, dipinti e oggetti d’arte, non può che sommariamente menzionare. L’esposizione, ordinata secondo un criterio cronologico, si divide post quem il 18 aprile 1506, giorno in cui Giulio II depose la prima pietra, e narra le vicende della «distruzione produttiva» della basilica costantiniana edificata undici secoli prima; e ante quem quella data, in una sezione in cui sono esibite le scoperte archeologiche della necropoli preesistente nell’area vaticana, con le meravigliose opere (sarcofago di Giona, stele di Licinia Amis) a testimonianza – come ricorda Paolucci nel catalogo (Edilindustria) – della trasfigurazione delle forme classiche negli stili dei nuovi valori cristiani. L’incisione della pianta di Martino Ferrabosco ci fa ben comprendere quale fosse la ricchezza in epoca medievale e rinascimentale dell’antica basilica paleocristiana. Era un ambiente «sovraccarico» di cappelle sepolcrali, altari, oratori che non permetteva più l’accoglienza delle masse devote di pellegrini. Niccolo V fu il primo a intervenire ampliando il transetto, e a nulla valsero le raccomandazioni di un manipolo di umanisti come Leon Battista Alberti, Maffeo Vegio o Poggio Angiolini per salvare le antiche vestigia e i tesori lì custoditi. Quando Michelangelo visitò la Basilica per individuare quale fosse la migliore posizione per la tomba di Giulio II, non poté che suggerire il completamento dell’opera iniziata con la costruzione del coro: esaudendo, così, il desiderio papale di identificare la basilica con il suo pontificato. Alla mastodontica impresa fu chiamato Donato Bramante, ma questa fase di progressiva distruzione della Basilica costantiniana non sarebbe mai iniziata senza l’occasione che portò Michelangelo a interessarsi del sepolcro papale. Questa operazione che non salva nulla dell’antico e ha origine nella costruzione dei quattro piloni centrali della cupola, è rappresentata nel percorso espositivo dai disegni di Pieter Coecke, Maerten van Heemskerck e Giovanni Battista Naldini. L’impresa bramantesca, però, risultò oltre misura lunga e dispendiosa. Quando nel 1514 l’incarico fu affidato a Raffaello, Leone X ancora officiava nella provvisoria costruzione del tegurium posta a protezione dell’altare maggiore. L’artista urbinate proseguì parte del disegno di Bramante, ma vide San Pietro soprattutto come «macchina dei desideri a disposizione della propria fantasia» – come scrisse Bredekamp – e la lasciò anch’egli incompiuta. L’incarico affidato da Paolo III ad Antonio da Sangallo non migliorò i risultati, poiché fece avanzare l’opera solo fino alla navata dell’antica basilica. La pianta di Roma del Dupérac dimostra come coesistessero le due strutture, e dunque dispiace che non sia presente alla mostra, mentre è più comprensibile l’assenza, data la sua dimensione, del modello ligneo che Labacco eseguì per Sangallo. Con la sua morte, fu nominato quale suo successore Michelangelo, che licenziò la «setta sangallesca» e impresse una svolta al cantiere, ridimensionando i volumi di San Pietro, così come di scorcio si può ammirare nella famosa tela di Domenico Cresti. Anche Michelangelo proseguì distruggendo ciò che fu eseguito prima di lui e a nulla valsero le critiche degli esclusi che si protrassero fino al pontificato di Giulio III. Lo schema seguito era a pianta centrale e semplificava, compattandolo, l’organismo architettonico. Inoltre, Michelangelo lo inondò di luce e all’esterno modulò plasticamente la parete con un ordine gigante. Avanzò per punti in modo da impedire qualsiasi futura modifica del suo organismo architettonico, che resse anche dopo la sua morte vanificando i tentativi di Ligorio e del Vignola. La stagione barocca, con l’esecuzione degli elementi del baldacchino e il colonnato da parte di Bernini, la facciata di Maderno e l’impresa dell’obelisco di Fontana, esaltarono la singolarità di San Pietro e ne fecero «la chiesa più famosa del mondo».

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