Il nuovo film di Clint Eastwood

Dal Manifesto di oggi. Dietro l’icona di guerra Clint Eastwood riscrive la storia di Iwo Jima – Luca Celada Los Angeles L’ufficio stampa della Paramount (ma in Europa la distribuzione sarà Warner Bros.) non avrà compito facile a promuovere Flags of Our Fathers come un inno all’eroismo patriottico. Impresa ardua (ma non tanto da scoraggiare […]

Dal Manifesto di oggi.

Dietro l’icona di guerra Clint Eastwood riscrive la storia di Iwo Jima – Luca Celada
Los Angeles L’ufficio stampa della Paramount (ma in Europa la distribuzione sarà Warner Bros.) non avrà compito facile a promuovere Flags of Our Fathers come un inno all’eroismo patriottico. Impresa ardua (ma non tanto da scoraggiare gli impavidi uomini-immagine degli studios) anche perché l’argomento dell’ultimo film di Clint Eastwood è precisamente la perversione delle immagini, la loro strumentalizzazione politica.
Quella che sta al centro del film è l’innalzamento della bandiera sull’isola di Iwo Jima, teatro della battaglia più sanguinosa sostenuta dalle forze armate americane nel secondo conflitto mondiale. Su questo minuscolo scoglio di pomice in mezzo al Pacifico moririono in meno di quattro settimane quasi 20.000 soldati giapponesi e oltre 6000 fra i marines sbarcati in ondate sulle spiagge di sabbia nera (le riprese sono state effettuate in Islanda) per conquistare una pista di atterraggio «strategicamente vitale» e per poter in seguito bombardare Tokyo. I bombardamenti che seguirono sono stati, con Dredsa, una delle più crudeli pagine della guerra, costati la distruzione di 57 città giapponesi e la morte di 500.000 civili. L’immagine di sei soldati americani che innalzano una bandiera sulla vetta del monte Suribachi, unica altura dell’isola, immortalata da un fotografo dell’Associated press, divenne una delle più celebri dell’iconografia del ventesimo secolo, una rappresentazione «monumentale» dello sforzo bellico con la forza grafica e «plastica» di una nike americana. Disseminato dai media, divenne anche una sorta di branding della vittoria nella «guerra giusta» attraverso le figure dei sei militi ignoti, senza volto in quanto ripresi di schiena. Il film di Clint Eastwood, basato sul libro di James Bradley Ron Powers, invece è l’ultima esplorazione dei fantasmi e demoni che rimuginano nell’anima di un’America orfana di idealismi e certezze. Clint scava dietro l’icona, nella banalità della guerra e della retorica dell’eroe. Intanto scopriamo che quell’alzabandiera improvvisato sulla vetta nacque già come riproduzione: la bandiera issata dai marines sostituiva un primo vessillo ritenuto troppo piccolo e che un ufficiale aveva deciso di conservare come souvenir. La prima bandiera venne ammainata e la seconda fu alzata da un gruppo di soldati che si trovavano sul luogo per allacciare un collegamento telefonico con il comando. Un fotografo che si trovava lì per caso puntò quasi sovrapensiero il suo obiettivo e la storia fu fatta. L’immagine, capostipite di un filone che arriva fino a quella dei pompieri che innalzano la bandiera sulle macerie di Ground zero, nasce cioè come pseudo-evento ed è subito acquisita dal ministero della guerra che la trasforma nel manifesto di una campagna per la vendita di buoni del tesoro, emessi allo scopo di finanziare lo sforzo bellico nel Pacifico e sollevare il morale dell’opinipone pubblica americana. Un’operazione di pubbliche relazioni «fondativa» cioè dell’era delle guerre-spettacolo condotte principalmente attraverso la gestione della loro immagine. Dopo che la foto viene pubblicata da tutti i giornali, il War Department decide di reclutare i soldati raffigurati per una tournée promozionale per la vendita di war bonds. Nel frattempo tre di loro sono morti e i sopravvissuti vengono prelevati dall’inferno del fronte (l’alzabandiera infatti avvenne non già alla conclusione vittoriosa della battaglia durata un mese, ma solo nella prima settimana) e rispediti negli States dove si ritrovano protagonisti spaesati di uno spettacolo fatto di comizi, tappeti rossi perfino rappresentazioni trionfali negli stadi con l’ausilio di fuochi pirotecnici e una collina di cartapesta su cui piantare una bandiera per il visibilio del pubblico. La storia si dipana in una terra di nessuno, onirica e allucinatoria negli interstizi fra ricordo e realtà, presente e passato. Flags of our Fathers è strutturato come un lungo flashback all’interno del quale se ne innestano molti altri attraverso i ricordi di John Bradley, uno dei soldati ritratti nella foto, ormai vecchio, prossimo alla fine dei suoi giorni. È una struttura anti temporale e labirintica che rammenta quella di Mattatoio numero 5, narrativa con cui spartisce un montaggio complesso, quasi caotico; come nel romanzo di Vonnegut, gli avvenimenti sono un vortice che si allarga da un evento di spaventosa violenza rifratto nei ricordi dei protagonisti. In questo, il film di Eastwood è simile anche a Salvate il Soldato Ryan di Steven Spielberg, che qui ha collaborato in veste di produttore (i due film hanno in comune anche Barry Pepper in uno dei ruoli principali). Anche in quel caso la narrrativa veniva messa in moto da un’operazione di «immagine» – la pattuglia del capitano Miller viene spedita a salvare Ryan per evitare che un vedova di guerra potesse perdere tutti e quattro i figli in combattimento. Entrambi i film ruotano atorno ad uno sbarco americano ma al posto di quello iperrealista in Normandia, Eastwood costruisce un teatro stilizzato per i suoi diciotteni mandati alla carneficina in un dedalo senza senso di trincee, cariche e imboscate che disegnano la geografia atroce della guerra. Spielberg era troppo legato a un sentimento di reverenziale omaggio alla generazione dei padri per approfondire le contraddizioni morali della guerra. Le tinte di Clint, invece, sono molto più fosche, più affini allo stile di Sam Fuller, il regista che sosteneva che in guerra «non esistono eroi, ma soltanto sopravvissuti». E, come in un film di Fuller, qui escono fuori l’atrocità e la contraddizione intima della guerra: il sacrificio, l’ubbidienza gli ordini irrazionali, la paura della morte, la difficoltà di uccidere. Ma il discorso è più ampio, si allarga all’ipocrisia complice che avvolge le guerre.. Il film apre con la dichiarazione: «Abbiamo bisogno di sapere che le guerre sono combattute da buoni contro cattivi – ma non è vero», una dichirazione di semplicità «evangelica» a cui l’attuale constesto conferisce tuttavia una forza rivoluzionaria. Questo è il corpo viscerale del film, e sotto la superfice non lineare – che irriterà molti – c’è il feticismo americano per le stelle e strisce, nell’era in cui i comandi militari vengono progettati da scenografi, c’è una meditazione sull’eterna ipocrisia della retorica bellica e sulla forza delle immagini usate per vincere le guerre o – come avvenne col Vietnam – capaci di fermarle, sull’omertà embedded – che può essere squarciata come è avvenuto ad Abu Ghraib – da altre immagini. Su tutto è diffusa una malinconia crepuscolare degli eroi che, dopo l’arbitraria promozione a eroi mediatici, vengono rispediti al dimenticatoio appena hanno esaurito la propria pubblica utilità, ma che devono tuttavia proseguire le loro vite «banali». È il sentimento forse più sincero e struggente del film. Dei tre la figura più tragica è Ira Hayes (interpretato da Adam Beach della tribù Ojibwa di Manitoba, già protagonista di Windtalkers per John Woo). L’indiano Pima dell’Arizona trasformato in eroe – che continuerà però a essere buttato fuori dai bar che «non servono gli indiani» – imbocca la parabola autodistruttiva dell’alcolismo, ridotto, fra le risse e gli arresti, a fare l’elemosina per qualche spicciolo in cambio di una foto coi turisti. Verrà trovato morto in un campo sulla riserva. La sua storia è raccontata da Clint con minimalismo pari alla bellissima ballata che gli aveva dedicato Johnny Cash già nel 1964. Eppure nei dettagli dell’affresco c’è come un problema di definizione, come se i primi piani non fossero del tutto messi a fuoco. Il film trasmette a tratti la sensazione di sfuggire di mano al regista o come se non fosse stato del tutto «digerito» da Clint e dal suo sceneggiatore Paul Haggis (Million Dollar Baby, Crash). Flags è solo la prima parte di un’opera più ampia che verrà completata da Letters from Iwo Jima un film «gemello» che racconterà la battaglia dal punto di vista giapponese, attraverso lo sguardo del generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe), comandante delle forze nipponiche costrette a combattere fino all’ultimo uomo nelle caverne dell’isola, una storia davvero affascinante del tutto sconosciuta all’occhio occidentale (quel film aprirà a breve in Giappone e sarà distribuito in occidente all’inizio dell’anno prossimo). Promette, afferma lo stesso Haggis, di avere la forza umanizzante dello sguardo «altro», come in Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale – ed è come se la sua mancanza pesasse su questo primo film, privato di una sua parte integrante.

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