Riflessioni sulla natura dei luoghi: J.G. Ballard

As usual, dal Manifesto di oggi. Dal canto mio considero James G. Ballard uno dei geni del nostro tempo. Semplicemente eccezionale. I patrioti del Nonluogo –Marco Bascetta Se qualcosa bisogna riconoscere senza esitazione a J. G. Ballard è di essere l’esploratore più tenace e attento del lato oscuro, inquietante, equivoco, del nostro tempo, dei comportamenti, […]

James G. Ballard


As usual
, dal Manifesto di oggi. Dal canto mio considero James G. Ballard uno dei geni del nostro tempo. Semplicemente eccezionale.


I patrioti del Nonluogo Marco Bascetta
Se qualcosa bisogna riconoscere senza esitazione a J. G. Ballard è di essere l’esploratore più tenace e attento del lato oscuro, inquietante, equivoco, del nostro tempo, dei comportamenti, degli stili di vita, di una «psicologia di massa» tanto esplosiva quanto poco appariscente. Ballard non ci proietta nei cupi futuri dell’utopia negativa, ma descrive e indaga una catastrofe già avvenuta. Con quel tanto di spirito conservatore e di rimpianto per un’umanità perduta, indispensabile a cogliere il «cattivo nuovo», a capirne le ragioni profonde e ineludibili, la trama segreta di una trasformazione che le certezze consolidate, gli strumenti della politica e i dispositivi della democrazia non sono più in grado di capire e tanto meno di fronteggiare. Da molti anni lo scrittore inglese esplora in tutti i suoi risvolti, fin nei sintomi più flebili, le nuove vie della violenza. Di quella violenza che viene «dopo il Novecento», dopo lo scontro di classe, dopo la conflagrazione delle ideologie e dei grandi interessi planetari. Violenza incistata nella più banale quotidianità, temuta, desiderata, invocata, indispensabile a fare breccia nell’anonimato e nell’insignificanza. Siamo agli antipodi dello scontro di civiltà e della sua micidiale retorica, nel cuore di una società opulenta, dove il diverso e il vicino, il simile e il nemico si toccano, sfocano l’uno nell’altro, contendendosi uno spazio senza qualità, un tempo senza spessore, un agire senza significato. Cercando nella violenza o nella caricatura di una rivoluzione impossibile una via di fuga attraverso le macerie sempre più illeggibili della modernità. Dalla violenza di gruppo dei ricchi pensionati che popolano i residence della Costa del Sol (Cocain’s nights), al furore ideologico ecologista che scivola progressivamente verso una sanguinaria tirannia (Il paradiso del diavolo), dagli esercizi da razza padrona e i «pogrom terapeutici» dei manager di Supercannes, alla futile rivoluzione dei ceti medi proletarizzati nei quartieri residenziali londinesi di Millennium people, non v’è sfaccettatura del «disagio della civiltà» che sfugga alla implacabile lente sociale di Ballard, non vi è torbida ambivalenza dei suoi rivoltosi postmoderni che non venga messa a nudo: l’essere vittime e sfruttati, relitti alla deriva, ma al tempo stesso possibili portatori di un ordine terrificante e feroce. Il lato oscuro della classe fu la tirannia dello stato socialista, quello della moltitudine è la violenza avvolgente, le identità fittizie e mutevoli in cui i naufraghi del Novecento e gli sfruttati del capitalismo immateriale cercano riparo. Nel suo ultimo romanzo, Regno a venire – Feltrinelli, pp. 288, euro 17,5, traduzione di Federica Aceto – l’esploratore Ballard si avventura attraverso le città satellite lungo l’autostrada che dall’aeroporto di Heathrow conduce a Londra. Dove intorno ai templi del consumo, i grandi centri commerciali, che soli conferiscono senso, identità e funzione alla metropoli diffusa, anonima, senza qualità, si agglutina una nuova forma di fascismo, tanto più insidiosa quanto più afasica, pervasiva e subliminale. Un nazionalismo xenofobo e violento che dal nulla del consumo e dalla potenza pulsionale del tifo sportivo cerca di generare una «patria» e un senso di «appartenenza». Quegli spazi privi di identità e di storia che Marc Augé aveva battezzato «non luoghi», aeroporti, autostrade, parcheggi, centri commerciali, metropolitane, circuiti, percorsi, flussi in cui impossibile è prender dimora, e dunque coltivare i potenti veleni dell’ideologia, o la tirannia arcaica del genius loci, si trasformano nella narrazione di Ballard, in forme di vita e tradizione, modello sociale e comunità. E cioè nel contrario stesso della loro assenza di vocazione. Come in ogni «piccola patria» balcanica è l’esercizio della violenza a rendere possibile questo passaggio, a trasformare l’insignificanza in terra promessa, la consuetudine in passione. Regno a venire altro non è che la meticolosa descrizione della trasformazione di un «non-luogo» in «patria». Quella futilità, quell’opulenza, quel pacifico conformismo, quella mentalità infantile (le tre divinità che troneggiano al centro della città dei consumi sono una venerata famigliola di orsi di peluche semoventi) che avrebbero dovuto proteggerci, grazie alla loro rassicurante mediocrità, dai grandi conflitti e dalle tragiche passioni del Novecento, dall’«inimicizia assoluta» e dal furore ideologico, diventano qui il motore di una violenza spropositata, il fondamento di una gerarchia e il dispositivo del dominio. I sorveglianti dei grandi magazzini e i volontari della sicurezza, distinti cittadini decorati con la croce di San Giorgio, finiscono con l’occupare il ruolo delle SS, gli hooligans quello delle masse razziste, un pubblicitario e un presentatore televisivo di terz’ordine il posto di Goebbels e della sua poderosa propaganda, e un mieloso addetto alle pubbliche relazioni quello di un improbabile Fuehrer. Tutte queste figure scaturite dal mondo delle merci e votate al suo servizio, si danno a loro volta nella forma di merce, si fabbricano, si pubblicizzano, si vendono. Ma, a differenza dalle merci, sviluppano una mostruosa soggettività, una inquietante produzione di senso. L’insignificanza, l’equivalenza, l’uniformità, si riscattano attraverso l’orrore. Qui è la banlieu dei ceti medi che, con i suoi fuochi e le sue aggressioni, si rivolta contro le consuetudini borghesi della metropoli moderna, contro gli immigrati, così come contro la sprezzante cultura «urbana» dei benpensanti londinesi. Entrambi considerati un velenoso residuo del passato. E si batte riesumando quella miscela di risentimento antiborghese e odio razzista che fu caratteristica dei fascismi storici. Ma non siamo a un ritorno al passato, tutto è cambiato. Il fascismo postmoderno si annida nelle innocue consuetudini del presente nei suoi bisogni, reali o indotti, di sicurezza, in un tempo di vita interamente colonizzato dalla moltiplicazione dei profitti. Nel romanzo di Ballard coloro che si battono contro il «Regno a venire» ne finiscono soggiogati: le astuzie della politica falliscono il bersaglio. Lo scrittore non ci prospetta soluzioni, ma dispiega dettagliatamente sotto i nostri occhi lo scenario dell’azione, il veleno di cui cercare l’antidoto.

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