Sulla natura della fotografia

Da Liberazione di ieri… Una foto non imita il mondo, lo rivela. Il caso Abu Ghraib – W. J. Thomas Mitchell Uno dei luoghi comuni più diffusi sulla natura della fotografia digitale (e sull’immagine digitale più in generale) è che l’avvento della digitalizzazione ha indebolito l’antica convinzione secondo la quale le immagini fotografiche rappresentano il […]

[Un dipinto di Caillebotte]


Da Liberazione di ieri…

Una foto non imita il mondo, lo rivela. Il caso Abu Ghraib – W. J. Thomas Mitchell
Uno dei luoghi comuni più diffusi sulla natura della fotografia digitale (e sull’immagine digitale più in generale) è che l’avvento della digitalizzazione ha indebolito l’antica convinzione secondo la quale le immagini fotografiche rappresentano il mondo in modo fedele, naturale e accurato. Si dice che la fotografia tradizionale basata su un processo chimico avesse una relazione indessicale col referente; essa era fisicamente obbligata a formare un’immagine attraverso i raggi di luce emanati dal soggetto. Questa immagine o somiglianza era così doppiamente referenziale: una doppia copia, poiché era, da un lato, un’impressione o traccia, e, dall’altro, una copia o un analogon. Sia indice sia icona, essa forniva una sorta di registro a doppia entrata del reale. Come la traccia del fossile, l’ombra, o il riflesso su un lago immobile, la fotografia tradizionale era un segno naturale. Essa possedeva un certificato di realismo come parte integrante della sua ontologia di base. Certo si potrebbe riconoscere, come osserva Mark Hansen, che «lo spettro della manipolazione è sempre andato a caccia dell’immagine fotografica», anche se egli insiste sul fatto che «questa è l’eccezione piuttosto che la regola». Come osserva William J. Mitchell «il riadattamento di immagini fotografiche è tecnicamente difficile, prende molto tempo ed è fuori dal mainstream della pratica fotografica». Con photoshop, presumibilmente, la rielaborazione o l’alterazione delle fotografie diventa tecnicamente facile, veloce e alla portata di tutti. Certamente i tipi di manipolazione e artificio che erano già resi possibili dalla fotografia tradizionale diventano ancora più semplici nella camera oscura digitale. Photoshop è correlato di strumenti magici per la distorsione, il perfezionamento, il “taglia e incolla”, la rimisurazione, la limatura e l’ottimizzazione. Ma nonostante l’ansia relativa all’incapacità di distinguere tra un’immagine genuina e una che è stata manipolata, il presente uso professionale della fotografia digitale nei nuovi media ha rivelato straordinariamente quanti pochi tentativi ci siano stati di fabbricare immagini false o ambigue. Come per la distinzione tra un’immagine “genuina” e una “manipolata”, si tratta di una fantasia paranoica dato che ogni fotografia realizzata in modo tradizionale era anch’essa un prodotto di manipolazione nel senso della tecnica, degli standard materiali e delle decisioni riguardanti cosa fotografare, come sviluppare e come stampare. Il concetto di immagine “genuina” è un fantasma ideologico. Ma ancora, questo non significa che la macchina fotografica possa essere utilizzata per mentire, o che le fotografie possano essere manipolate per ingannare. Semplicemente l’invenzione dell’immagine digitale non fa di questa capacità la chiave di una certa “ontologia” della fotografia digitale. Le famose foto di Abu Ghraib sono tutte digitali. La loro digitalizzazione, per quanto ne so, non ha avuto alcun effetto sulla loro ricezione in quanto illustrazioni autentiche e realistiche di ciò che stava accadendo dentro quella prigione, e, inoltre, in quanto rivelatrici delle peculiari attitudini al sadismo che caratterizzava la presenza degli americani di fronte e dietro la macchina fotografica. Queste immagini sono rivelazioni di una realtà strutturale, sociale e politica, che sarebbe altrimenti rimasta al livello di rumore e rapporto verbale. Certamente queste immagini avrebbero potuto essere manipolate e fabbricate per trasmettere false informazioni. E, in effetti, molte di loro sono state visibilmente modificate per cancellare le facce delle vittime irachene. Un’intera industria di fotografie false di Abu Ghraib si è diffusa velocemente su internet al posto di quelle autentiche. La loro “non autenticità” non ha nulla a che vedere però con il loro statuto di immagini digitali. Il mio punto di vista non è che la digitalizzazione sia un fattore irrilevante, ma che la sua rilevanza vada specificata. Nel caso delle foto di Abu Ghraib, la caratteristica fondamentale della digitalizzazione non è l’aderenza al referente (che è quasi sempre stabilita dalla documentazione e dalle credenziali dei testimoni fuori dall’immagine stessa), ma la circolazione e la disseminazione. Se le foto di Abu Ghraib fossero state create attraverso un processo chimico, sarebbe stato molto difficile per loro circolare nel modo in cui lo hanno fatto. Non avrebbero potuto essere copiate cosÏ velocemente, o trasmesse in tutto il mondo attraverso la posta elettronica, o i siti internet (a meno che non fossero state scansionate e dunque digitalizzate). Sebbene dietro le foto di Abu Ghraib non ci siano stati eroici fotoreporter in grado di offrire una prospettiva umana, hanno comunque fornito qualcosa di ancora più sorprendente e inquietante: una rivelazione del lavoro interno alle prigioni militari americane e del Gulag fuorilegge che ha creato l’amministrazione Bush, e una visione interna del differente uso della fotografia come strumento di tortura. In modo particolare, le foto di Abu Ghraib hanno dimostrato il nuovo ruolo dell’essere al mondo della fotografia, reso possibile attraverso la digitalizzazione. Esse hanno mostrato il modo in cui la circolazione rapida e virulenta delle immagini digitalizzate ha dato loro una sorta di validità incontrollabile, un’abilità ad oltrepassare i confini, a sfuggire restrizioni e quarantene, a superare qualsiasi tipo di controllo. In un tempo in cui corpi umani reali vengono sempre più confinati da limiti veri o virtuali, recinzioni, posti di controllo e mura di sicurezza, in cui quegli stessi corpi sono soggetti ad una sorveglianza incredibilmente intensiva e intrusiva, l’immagine digitale può qualche volta agire come un tipo di “gas ribelle” che sfugge a queste restrizioni. Non è tanto l’aderenza al referente ad essere minacciata dall’immagine digitale, quanto piuttosto l’aderenza all’intenzione di controllo nella produzione delle fotografie. Di certo l’intenzione dei fotografi di Abu Ghraib non è stata perfettamente “soddisfatta” dalla loro circolazione digitale. Le loro intenzioni (che restano ancor in qualche modo oscure) erano piuttosto legate all’idea di creare dei trofei di dominio sadico in un contesto in cui l’incapacità americana di contenere l’insorgenza irachena era ormai diventata evidente, e di umiliare i soggetti delle fotografie, forse utilizzandoli perfino come ricatto per costringere gli iracheni a lavorare contro la ribellione e a favore dell’intelligence americana. Entrambe queste intenzioni si sono rivolte contro gli stessi produttori delle fotografie. I loro “trofei” sono stati esibiti ed essi accusati di essere “poche mele marce” da punire per questi “abusi”. Inoltre, invece di aiutare ad ottenere informazioni sulla ribellione irachena, le fotografie in realtà hanno aumentato la resistenza e sono servite da strumenti di reclutamento per la rivolta e per le cellule terroristiche di tutto il mondo. Che cosa è davvero il realismo? Il realismo “socialista”, come sappiamo, non era che un processo artificiale di idealizzazione ideologica di una realtà proiettata e agognata, ma (come sottolineò Lukács) non era la stessa cosa di ciò che chiamavano il “realismo critico”, un progetto di rappresentazione oggettiva e storicamente informata, costruita su un punto di vista indipendente “fuori” dal socialismo, una prospettiva che necessariamente identifica il realista critico come qualcuno che occupa una posizione di classe media, perfino borghese. Il realismo letterario, come sottolineò Northorp Frye tempo fa con lo stesso spirito, coinvolge la rappresentazione di gente comune in una situazione “ordinaria”. E poi, per finire, esiste un realismo “scientifico” che definisce attentamente la sua nozione di verità, corrispondenza, adeguamento e informazione, e che (data la sua base quantitativa) è profondamente attaccato alla precisione dell’immagine digitale. Il realismo scientifico, comunque, è generalmente in disaccordo con il realismo di senso comune, e ci mostra qualcosa che non potremmo vedere ad occhio nudo. Ecco perché, ovviamente, la fotografia (sia chimica sia digitale) gioca su entrambi i lati della palizzata in merito
al dibattito tra la scienza e il senso comune, le verità verificabili e le idealizzazioni del desiderio. E questo è il motivo per cui mi allineo alla fine al realismo filosofico (distinto dal nominalismo), secondo il quale entità astratte e ideali sono “entità reali” nel mondo reale – più reali, invero, del nostro confuso repertorio di impressioni e opinioni comuni. Il realismo è un progetto per la fotografia, non qualcosa che le appartiene per natura. (Trad. di Federica Mazzara)

2 Comments

  1. ciao, sono Dario….in sintesi, sono d’accordo che la tecnica o il tipo di foto siano indifferenti, l’importante è rappresentare sia aspetti della vita sia impressioni interiori..

  2. Anche se la fotografia non è la mia passione primaria, la penso anch’io nello stesso modo. E mi conforta che appaiano i primi segnali di cessazione di quella che per troppo tempo è stata una ridicola stigmatizzazione della tecnologia digitale (sia in fotografia che in molti altri campi d’espressione artistica).

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