Che voglion fare a Milano?

Articolo dal Manifesto di oggi: Metropoli, un anello verde intorno all’Isola – Lucia Tozzi Milano, la capitale della deregulation urbanistica, fucina di immensi livori nei confronti di qualsiasi forma di pianificazione, la «città del pragmatismo» che ha gestito la trasformazione postindustriale degli ultimi decenni giustapponendo allegramente i progetti parziali man mano che venivano proposti, comincia […]


Articolo dal Manifesto di oggi:

Metropoli, un anello verde intorno all’Isola – Lucia Tozzi
Milano, la capitale della deregulation urbanistica, fucina di immensi livori nei confronti di qualsiasi forma di pianificazione, la «città del pragmatismo» che ha gestito la trasformazione postindustriale degli ultimi decenni giustapponendo allegramente i progetti parziali man mano che venivano proposti, comincia improvvisamente a emettere segnali sovversivi. Con il progetto di una cintura di bosco intorno a Milano, promosso da provincia, regione e comune Stefano Boeri sdogana un modo di pensare la città, fondato su una visione unitaria a lungo termine e sulla comprensione della complessità, oramai desueto tra gli intellettuali e gli amministratori milanesi e più in generale italiani. Dopo anni di muro contro muro, le rivendicazioni dei facinorosi abitanti dell’Isola, il quartiere simbolo delle battaglie civiche contro la speculazione e il fenomeno della gentrification, vengono accolte nell’insperata revisione del progetto originale Isola-De Castilla, anch’essa affidata allo Studio Boeri. E il nuovo sindaco (Letizia Moratti! Tant’è) assesta un colpo ferale alla monocultura dell’automobile, associata inevitabilmente alla sete di parcheggi e alla fuga nelle villette in campagna, lottando per l’introduzione del ticket anti-inquinamento per i mezzi di trasporto dei non residenti. A questo punto diventa lecito chiedersi che cosa stia succedendo, se gli elementi di questo puzzle rappresentino i germi plausibili di una rivoluzione copernicana o una triste apertura al politically correct. Nonostante l’evocativa analogia con la Congestion Charge e la Green Belt, il paragone con le felici vicende urbanistiche di Londra non è pertinente, perché le soluzioni inglesi fanno parte di una strategia complessa enunciata nel London Plan, a sua volta espressione di una volontà politica ben precisa, mentre quelle lombarde sono di fatto episodi concepiti in momenti e contesti diversi, frutto di istanze eterogenee e persino contraddittorie. Il Metrobosco progettato da Boeri è una fascia boschiva di profondità variabile che non si limita a collegare il sistema di parchi e cascine localizzato nelle aree perimetrali della città – Parco Nord, Parco Lambro, Forlanini e a ovest Bosco in città, parco delle Cave, Cascina di Prezzano e Parco dei Fontanili, fino a Parco Sud – ma prevede l’integrazione di aree agricole e soprattutto un’imponente opera di riforestazione, in parte anche da destinare a bosco produttivo, per un totale di 3 milioni di alberi su un’estensione di 30.000 ettari. La sua realizzazione comporterebbe, oltre ai prevedibili benefici nei termini di quantità di ossigeno, qualità paesaggistica, tutela del territorio, un grande vantaggio strategico: «Guardare Milano dal punto di vista degli spazi aperti – afferma Boeri – significa capovolgere la prospettiva del policentrismo edilizio e delle concentrazioni funzionali, puntare l’attenzione sulle relazioni sociali e sui flussi vitali di una metropoli. Significa ragionare sul senso di una città progettandone prima di tutto gli spazi collettivi, i luoghi di incontro, i punti di condensazione della vita sociale e i nodi di scorrimento delle folle metropolitane». Si tratta dunque di un piano sviluppato a partire dai vuoti invece che dai blocchi edilizi, una novità assoluta nella prassi milanese e al tempo stesso un’idea che ha ossessionato a lungo Giancarlo De Carlo – e del resto il suo modello della città-turbina, elaborato negli anni ’60 nel contesto dei dibattiti sul Piano Intercomunale Milanese è uno degli archetipi del Metrobosco. Tuttavia l’aspetto più dirompente dell’anello verde è costituito dal fatto che la sua presenza assume di necessità lo status di confine: «È un confine poroso, naturalmente, permeabile, da attraversare lentamente a piedi o in bicicletta o a tutta velocità percorrendo le arterie radiali di Milano», aggiunge Boeri. Il suo valore è soprattutto simbolico, rappresenta un argine contro il continuo urbano esteso da Torino a Venezia, e una discontinuità rispetto a quel filone di pensiero, finora dominante, che ne elogia la produttività. L’eliminazione di una barriera reale è invece uno dei punti fondamentali della revisione del progetto Isola-Lunetta, parte della ricchissima opera di sistemazione dell’area Garibaldi-Repubblica con annessi Giardini di Porta Nuova, Città della moda e nuova sede della regione. Il popolare quartiere Isola, tuttora circondato da infrastrutture e aree abbandonate che lo rendono poco accessibile dall’esterno, è sempre stato considerato la pecora nera del piano. Tutti i progetti e i concorsi che si sono avvicendati sull’area (il masterplan, redatto da Pierluigi Nicolin, risale a vent’anni fa) hanno mantenuto il quartiere rigorosamente separato dal prestigioso parco per mezzo di una nuova strada a scorrimento veloce e di un’enorme quantità di cubature date in permuta ai proprietari dei terreni su cui sorgerà lo stesso parco. Gli abitanti hanno ricambiato con una mobilitazione accanita che ha prodotto un caso «scomodo». La revisione dello Studio Boeri prevede un pesante ridimensionamento e la redistribuzione delle cubature, la soppressione della strada-barriera e la creazione di un nuovo giardino pubblico contiguo al parco, oltre alla conservazione di alcuni edifici del tessuto storico: un buon risultato, ottenuto anche grazie al recupero dello straordinario lavoro di progettazione partecipata svolto dal gruppo coordinato da Giancarlo De Carlo per il concorso (perso) dei Giardini di Porta Nuova (documentato nel libro La costruzione di un progetto, Alinea editrice, 2004). Verrebbe naturale pensare che il committente della revisione sia l’amministrazione pubblica, decisa a porre rimedio – seppure tardivamente – allo scempio programmato e a farsi carico delle esigenze di un esasperato gruppo di cittadini. Invece a chiamare Boeri è stato Manfredi Catella, amministratore delegato dell’immobiliare Hines, e per giunta, con un totale ribaltamento dei ruoli, è toccato a lui porre dei vincoli qualitativi all’indifferente Comune. Non è stato un oscuro progetto di riforma sociale a indurre una società immobiliare a un comportamento apparentemente tanto anomalo, ma la constatazione che la qualità di un progetto del genere doveva necessariamente tenere conto dell’aspetto sociale, oltre che delle soluzioni tecniche ed estetiche. In altri casi, per ragioni più o meno legate alla promozione d’immagine, le società offrono tecnologie ecosostenibili o spazi pubblici, ma la committenza pubblica sembra sempre più confinata al ruolo di passacarte. Gli abitanti delle villette brianzole e gli sviluppatori possono dormire sonni tranquilli, per ora non ci sono elementi sufficienti per una svolta radicale: la rendita fondiaria resta il motore principale della trasformazione e la conurbazione Milano-Torino è oggi considerata uno degli agglomerati economicamente più efficienti d’Europa, e come tale è rappresentata anche in Biennale. Tuttavia il fatto stesso che questi progetti abbiano potuto essere concepiti e diffusi e che raccolgano consensi è tutt’altro che irrilevante. Sono i primi, importanti colpi inferti a un mondo culturale che per anni ha sostenuto le ragioni del buonsenso ambrosiano, della prospettiva a breve termine, della «mancanza di visione».

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