E’ morto Ligeti

Ci ha lasciato uno tra i personaggi più interessanti del secolo scorso. Dal Manifesto di oggi:Ligeti, la musica perde la sua Odissea – Arrigo Quattrocchi «Quando morirò, se proprio ci tenete a chiamare qualcosa con il mio nome, dedicatemi una strada sbagliata György Ligeti». Così disse una volta a Budapest, con il suo umorismo tagliente, […]

Gyoergy Ligeti

Ci ha lasciato uno tra i personaggi più interessanti del secolo scorso.

Dal Manifesto di oggi:
Ligeti, la musica perde la sua Odissea – Arrigo Quattrocchi
«Quando morirò, se proprio ci tenete a chiamare qualcosa con il mio nome, dedicatemi una strada sbagliata György Ligeti». Così disse una volta a Budapest, con il suo umorismo tagliente, il compositore transilvano, nato nel 1923. Ligeti si è spento ieri mattina a Vienna, all’età di 83 anni, per una grave malattia, e la «strada sbagliata» da lui imboccata è oggi considerata come una delle prospettive più affascinanti e personali della musica del secondo Novecento. È una strada di ricerca maturata attraverso drammatici rivolgimenti biografici: l’interruzione degli studi a Budapest, nel 1943, i lavori forzati cui venivano destinati i cittadini di origine ebraica; la limitazione della creatività da parte del regime, negli anni dopo la guerra. Quindi, l’invasione sovietica del 1956 e la decisione di trasferirsi in occidente. Anche per queste vicende, Ligeti non fu un autore precoce; dopo gli esordi in Ungheria, nel segno di Bartok, il suo approdo a Vienna, nel 1956, lo porta in contatto con le figure di spicco dell’avanguardia tedesca, Stockhausen, Koenig e Eimert; inizia così a lavorare presso lo studio di musica elettronica della radio di Colonia, per passare in seguito alla trattazione diretta di voci e strumenti. Questo lento sviluppo dell’esperienza compositiva doveva far sì che Ligeti rimanesse sostanzialmente estraneo al dibattito degli anni Cinquanta intorno al pensiero seriale e al cosiddetto «post-webernismo», e sviluppasse invece il suo pensiero a partire da presupposti differenti da quelli del calcolo predeterminato e strutturale degli eventi sonori. In sostanza alle strategie della composizione, cioè alle preoccupazioni relative alla astratta tecnica compositiva, Ligeti ha anteposto le strategie della ricezione, cioè le preoccupazioni relative al suono in sé e per sé e agli effetti del suono sull’ascoltatore; una posizione che ha fatto apparire la musica di Ligeti ancora attualissima, anche dopo il tramonto della stagione più rigorosa dell’avanguardia storica. Nulla di estetizzante c’è, comunque, nel pensiero musicale di Ligeti; e questo perché – almeno a partire da uno dei suoi capolavori, Atmosphères per orchestra, del 1961 – la ricerca sul suono, la predilezione per le fasce di materia sonora, in cui sono annullati precisi rapporti intervallari fra i suoni, e per le loro trasmutazioni presuppongono un ripensamento del concetto di tempo musicale, verso la fissazione dell’attimo. L’esempio forse più celebre di questo procedimento – anche per gli impieghi cinematografici del brano – è quello di Lux aeterna (1966) per sedici voci a cappella – che fa seguito al Requiem dell’anno precedente, in una direzione di liturgia funebre – in cui la sovrapposizione delle linee vocali crea un magma sonoro senza inizio e senza fine, teso verso l’eternità, in una prospettiva neoplatonica. C’è, dietro questo tipo di procedimento, l’esperienza della musica elettronica trasportata su voci e strumenti acustici, che viene ripetuta anche in altre forme, ad esempio con Volumina (1962) per organo e Lontano per orchestra, o anche il Concerto per violoncello (1966. Ma Ligeti doveva guardare poi verso esperienze diverse. All’inizio degli anni Settanta nelle sue partiture fanno la comparsa elementi melodici, come nel Doppio concerto per flauto e arpa basato, come altri brani, su due movimenti contrastanti, su una trasparenza di scrittura che lascia spazio a tratti ironici. Non è un caso che l’esperienza maggiore di quel decennio, poi rielaborata negli anni successivi, sia l’opera Le grand macabre (1978), visione sarcastica, surreale, pessimistica del mondo moderno, in cui fanno irruzione in modo sfrontato il sesso e la politica; è, Le grand macabre, uno degli approdi più trasgressivi e importanti del teatro contemporaneo. Ma gli interessi di Ligeti dovevano guardare ancora oltre. La prospettiva degli anni Ottanta è quella della musica africana e della poliritmica, che innerva le sue opere più recenti. Polemista instancabile, ricco di un sarcasmo graffiante che deborda nei suoi scritti e nelle sue interviste – l’ultima, imperdibile, è il volume Lei sogna a colori?, un colloquio con Eckhard Roelcke edito in Italia da Alet lo scorso anno – Ligeti ha attraversato il secondo Novecento da grande indipendente, senza mai essere uomo di parte e di scuola, e forse anche per questo si è imposto come uno dei pochi autentici maitres-à-penser della musica del nostro tempo. Alle sue partiture occorre oggi augurare un vasto fiorire di studi, e, soprattutto in Italia, molte occasioni di pubblica esecuzione.
Kubrick e non solo. Sinfonia per il cinema – Roberto Silvestri
«Uno specchio d’acqua, a prima vista immobile, nel quale si riflette una figura dai contorni incerti». Aprono 2001 Odissea nello spazio due minuti e 20” di Atmospheres (1961), di Gyorgy Ligeti. Il compositore descriveva, stranamente da impressionista, una partitura non tonale, anzi geometricamente organizzata in modo da produrre spaesamento d’immagine. Sensazione fisica e sonora perfetta per un film sf presuntuosamente diverso. Un incipit, subito attenuato dallo stacco sulle dense e nervose tonalità di Richard Strauss (Così parlà Zarathustra) per evidenziare quel bipolarismo perfetto tipico dell’estetica kubrickiana incentrata sulla dialettica dell’opposto e dell’antinomia (atonale/tonale ovvero disorientamento/riequilibrio…). Così il Kyrie, dal Requiem di Ligeti, indecifrabile magma di voci arcane segnala il celebre monolite, dinanzi agli ominidi, ed è replicato, uscendo dalla dissolvenza sonora incrociata col coro a cappella Lux Aeterna, quando riappare nel cratere della base lunare Clavius, prima di un valzer, di nuovo ritonificante di Johann Strauss. E infine un altro brano, Aventures (leggiamo nel fondamentale La musica secondo Kubrick di Sergio Bassetti, edito da Lindau) che venne utilizzato, ma poi manipolato liberamente e arbitrariamente dal regista anglo americano, sempre in 2001 Odissea nello spazio, quando si trattò di sostituire un’altra parte della la partitura – bella, pronta e hollywoodiana – «ricusata», di Alex North. Troppo aleatoria fu, secondo i giudici, quell’alterazione, visto che il compositore citò in giudizio Kubrick, e vinse la causa. Ma Ligeti torna in altri film di Kubrick, Shining (a produrre una variazione e condurci in una dimensione «interiore» dell’horror) e A.I., dove John Williams lo rievoca quando si tratta di travestire di armonie postumane i Mecha. Un Ligeti percussivo (da Musica ricercata: «N.2 Mesto, rigido e cerimoniale») dà infine il ritmo, quasi scandisce il montaggio di Eyes Wide Shut spiazzando, confondendo e rendendo irreali spazi e situazioni attraverso una pulsazione in controtempo. Gyorgy Ligety sarà tra i collaboratori di Kubrick intervistati nel documentario di Jan Harlan (2001) Stanley Kubrick: a life in Pictures, ma collaborerà con altri registi di cinema, o comunque molti cineasti si avvarranno delle sue suggestive micropolifonie. Buon ultimo Tim Burton che riprende il Requiem in Charlie and the Chocolate Factory (2005) e buon secondo, dopo 2001, il documentario Die Fruchte der Arbeit di Alexander J.Seiler (1977). Gli altri dieci film che hanno utilizzato le musiche postdodecafoniche di Gyorgy Ligeti sono il cortometraggio Morrer no mar (1984) del galiziano Alfredo Garcia Pinal; 2010 di Peter Hyams (1984), in cui torna Lux Aeterna; La ira dello spagnolo Carlos Atanes(1989); Merci la vie di Bertrand blier (1999); Heat di Michael Mann (che nel 1995 sceglie il concerto per violonecello e orchestra); il corto di Christine Dory Bruno n’a pas d’argent (1999); l’horror di Damon Packard Reflection of evil (2002); il mediometraggio finlandese Il futuro non è quello che deve essere (2002) di Mika Taanila, l’ungherese Masnap (2004) di Attila Janisch e il thriller Compartement (2005) di Ray Arthur Wang.

2 Comments

  1. Grazie “anonimo”, l’ho saputo. Mi dispiace che sia morto (ovviamente), ma lui e il fratello non sono tra i miei autori preferiti. Un po’ troppo mestieranti.

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