La storia dell’arte e il colore giallo

L’altro tra i due articoli interessanti del Manifesto di oggi, saltando quelli riguardo al festival di Cannes. Se tutti i giornali fossero così forse ci sarebbe più opinione e meno informazione faziosa. Perché il Manifesto sarà anche di parte, ma almeno ha il buon gusto di ammetterlo. Il Manifesto dà per scontate le notizie, non […]

Johannes Vermeer, Ragazza con l'orecchino di perla (o Ragazza con turbante)

L’altro tra i due articoli interessanti del Manifesto di oggi, saltando quelli riguardo al festival di Cannes. Se tutti i giornali fossero così forse ci sarebbe più opinione e meno informazione faziosa. Perché il Manifesto sarà anche di parte, ma almeno ha il buon gusto di ammetterlo. Il Manifesto dà per scontate le notizie, non le filtra per trasmetterle viziate da un punto di vista. Va direttamente al punto di vista. In risposta all’e-mail di Juanita che mi domanda come mai pubblico tante notizie dal Manifesto.

Indagine sui misteri del colore giallo nella storia che intreccia l’arte alla scienza – Antonio Forcellino
Nel suo Libro dell’Arte, con cui si propone di divulgare i modi e i segreti della bottega artistica medievale, Cennino Cennini menziona tra gli altri un colore giallo, avvertendo che «Giallo è un colore che si chiama giallorino, el quale è artificiato, e è molto sodo e greve come prieta, e duro da spezzare (…) però ti dico sia colore artificiato, ma nond’archimia». Il giallorino, alla lettera un giallo chiaro indicato dal diminutivo, è colore tenue, pallido ma molto stabile e si presta nell’universo simbolico medievale e poi rinascimentale a connotare sentimenti negativi, come l’invidia, il tradimento, l’angustia. Tanto che nel mondo islamico dall’VIII secolo in poi si associa agli ebrei e ai cristiani finendo per connotare, nei confini del mondo cristiano, gli ebrei; fino all’infame genocidio perpetrato nel secolo scorso, quando sul braccio delle vittime si apponeva una stella di Davide immancabilmente gialla. Nelle figurazioni pittoriche medievali, gialla è la veste della rappresentazione della Sinagoga, dell’ebreo e, in particolare, di Giuda, fino alla sistematizzazione che ne fa Cesare Ripa nella sua Iconologia dove la Malvagità è vestita di giallo perché «la veste di color giallolino significa Malvagità, tradimento e astutia, mutatione dè pensieri, e insomma questo colore non si può applicare ad alcuna virtù, non avendo in se fondamento stabile e reale». Questo colore così pieno di significati, nasconde altri segreti che riguardano il mistero della sua composizione e produzione sin dall’antichità. L’ambiguità che lo connota è già nelle parole del Cennini quando avverte, in apertura di capitolo, che si tratta di un colore «artificiato» per poi ribadire, tuttavia, la sua provenienza non alchemica. Con il progredire della scienza moderna, questo colore diventa il centro di un dibattito sempre più appassionato che investe nell’età dei lumi persino la prestigiosissima Académie Royale des Sciences de Paris, dove vi si dedicano dibattiti enciclopedici, intrecciando la passione per la conoscenza naturale agli interessi economici dell’industria. Infatti, questo color giallorino o giallolino, che in un momento della sua storia si identifica con il famosissimo Jaune de Naples/Giallo di Napoli, diventa uno dei componenti essenziali nella decorazione della ceramica e della porcellana, con le nuove manifatture europee che tentano di imitare e superare quelle cinesi nel loro dettare la moda all’Europa del XVIII secolo. I pigmenti impiegati per il giallorino derivano, in genere, dalle tecnologie di produzione delle ceramiche e dei vetri e hanno tra gli ingredienti piombo, stagno e/o antimonio, o i loro ossidi. L’impiego di questi pigmenti è differenziato nel tempo e nelle diverse aree geografiche, ed è affascinante ripercorrere la storia del loro utilizzo nelle differenti tecniche artistiche e la vicenda della loro riscoperta da parte degli scienziati moderni. Nella Roma del Seicento c’era, ad esempio, un particolare pigmento giallo identificato correttamente solo pochi anni orsono, il giallo di piombo stagno e antimonio. Pittori come Domenichino o Orazio e Artemisia Gentileschi hanno usato questo pigmento nelle loro opere prodotte nell’Urbe,ma non in quelle realizzate altrove durante i loro spostamenti: circostanza che testimonia la loro inconsapevolezza riguardo alla sua effettiva composizione. Sul giallorino, sulla sua storia e sui suoi misteri è appena uscito un libro straordinario, senza confronti per la vastità e la raffinatezza della ricerca che espone, di Claudio Seccaroni titolato Giallorino, storia dei pigmenti gialli di natura sintetica (De Luca Editori D’Arte) a sua volta inserito in una collana diretta e curata dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione. Claudio Seccaroni è uno scienziato dell’Enea che da anni indaga i materiali artistici utilizzando le più sofisticate attrezzature scientifiche; ma da sole queste non basterebbero a giustificare un risultato così convincente. Da molti anni, infatti, arrivano dalla diagnostica applicata al campo dell’arte indagini semplificate e semplicistiche che finiscono per illudere su un avanzamento della conoscenza concreta dell’arte ostacolandone in realtà la comprensione, dal momento che assumono un punto di vista così astratto e limitato da rendere inutilizzabili gli stessi risultati. La prospettiva di Seccaroni è invece larga come un orizzonte: controlla con un rigore filologico inappuntabile le fonti scritte riferibili alla pratica artistica, passando dai trattati di Plinio il Vecchio ai manoscritti della British Library di Londra e di altre biblioteche, e incrocia questi dati con una casistica analitica che raccoglie i risultati dei laboratori americani europei e orientali, riproducendo i procedimenti e gli ingredienti descritti in ricette antiche e dimenticate. Accanto a questo lavoro sterminato di ricerca, viene collocato un ragionato racconto sull’evoluzione dell’orientamento scientifico ai problemi della conoscenza naturale, che ripercorre lucidamente i trionfi e gli errori della scienza moderna senza omettere la presunzione assolutistica delle ricerche contemporanee, sempre pronte a gridare allo svelamento di una verità. Per parte sua, invece, Seccaroni sottolinea come sia importante contestualizzare storicamente ogni scoperta e collocarla accanto ai dati sempre esigui su cui esse si fondano, così da essere pronti a adeguarsi alle nuove acquisizioni. Non è un discorso di poco conto, soprattutto in un’epoca in cui ci si illude di scoprire l’autenticità di un Caravaggio dall’esame dei pigmenti o dalle radiografie, come si legge continuamente sui mass media. Con il suo respiro enciclopedico reso in una scrittura capace di comunicare anche le questioni più specialistiche grazie a quello sforzo divulgativo di cui solo un vero erudito è capace, questo libro sul giallorino riporta l’arte alla sua complessità fisica, formale ma soprattutto storica, ricordando quanto sia decisivo il dettaglio, nelle attività spirituali. La storia di questo colore diventa così, tra le pagine del libro di Seccaroni, una vicenda della pratica artistica, della scienza e del costume, con un apparato critico non soltanto esaustivo ma mai messo in campo prima, neppure dai potenti centri di ricerca dei musei stranieri, a riprova del fatto che la passione non conosce limiti. E forse non è soltanto una coincidenza se proprio da un colore simbolicamente così avversato ambiguo e spigoloso è nata una indagine tanto complessa e affascinante, capace di cambiare per sempre il modo di guardare al rapporto tra l’arte e la scienza.

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