A Roma si danno i numeri

Una rassegna di articoli sul festival della matematica di Roma. Con la matematica, lo devo confessare, ho avuto rapporti altalenanti, ma mi ha sempre affascinato il suo risvolto creativo, sia in musica che in arte che in narrativa. Spero di avere tempo per parlarne nei prossimi giorni, e di ricevere spunto magari proprio da qualcuno […]

Una rassegna di articoli sul festival della matematica di Roma. Con la matematica, lo devo confessare, ho avuto rapporti altalenanti, ma mi ha sempre affascinato il suo risvolto creativo, sia in musica che in arte che in narrativa. Spero di avere tempo per parlarne nei prossimi giorni, e di ricevere spunto magari proprio da qualcuno dei partecipanti al festival di Roma.

Dalla Stampa del 14, un’intervista a John Nash:
Nash, l’Odissea tra i numeri di una "mente meravigliosa"
PIERGIORGIO ODIFREDDI
Tra gli ospiti di fama mondiale del Festival della matematica di Roma, domenica 18 ci sarà John Nash, premio Nobel dalla storia personale complessa e affascinante raccontata in un film altrettanto famoso. Sarà una delle sue rare uscite pubbliche. Ad intervistarlo uno dei più noti matematici italiani, Piergiorgio Odifreddi, del quale possiamo pubblicare stralci di una delle poche interviste a Nash.
Un libro di Sylvia Nasar e un film di Ron Howard, entrambi intitolati "A beautiful mind" e di grande successo, hanno raccontato la strana storia di John Nash, il genio che ha legato il suo nome a una serie di risultati ottenuti nel giro di una decina d’anni: un paio di loro gli sono valsi il premio Nobel per l’Economia nel 1994. E’ una tragica ironia del destino che un uomo che ha vissuto venticinque anni da squilibrato, soffrendo di schizofrenia paranoide e credendosi l’Imperatore dell’Antartide e il Messia, sia passato alla storia per aver introdotto la nozione di equilibrio oggi universalmente usata nella Teoria dei giochi. Così, parlando a ruota libera con questa "mente meravigliosa", abbiamo ripercorso alcune tappe della sua singolare vicenda scientifica e umana. Lei è religioso? "Ho cambiato varie volte idea, quand’ero mentalmente disturbato. Si rischia di uscire di testa pensando troppo alla religione, soprattutto se si fa scienza e si cerca di tenere fede e ragione in compartimenti separati. Un’osservazione elementare, però, è che le varie religioni sono logicamente incompatibili fra loro: non possono dunque essere tutte vere". La stessa cosa vale per la politica, di cui lei ha scritto che è un inutile spreco di energia intellettuale. "Mi riferivo soltanto alla mia esperienza personale, influenzata dalla malattia mentale: ho cominciato a guarire quando ho rifiutato alcune delle mie illusioni in questo campo. La politica non è certo uno spreco di energie per i politici di professione!". Le ha parlato dei suoi incontri con von Neumann, ma qui a Princeton ha anche conosciuto anche Einstein. "Quando sono andato da lui, un suo assistente -John Kemeny- gli stette sempre vicino e in silenzio, come una guardia del corpo. Probabilmente, Einstein incontrava un sacco di matti e aveva bisogno di un minimo di protezione". E di cosa era andato a parlargli? "Lo spostamento verso il rosso delle righe spettrali delle galassie lontane, di solito, si interpreta come un effetto dell’espansione dell’universo. A me era venuta l’idea che si potesse invece interpretare come una perdita di energia gravitazionale della luce, più o meno come una barca che si muove nell’acqua perde energia producendo onde". E Einstein come la prese? "La cosa non gli piacque troppo, e mi disse: ‘giovanotto, credo che le farebbe bene studiare un po’ di più’. Non so se la mia fosse una buona idea, ma certamente in seguito anche altri l’hanno avuta e ci hanno scritto su". Dopo la laurea lei ha lavorato per la Rand Corporation, che era un covo di reazionari. "Sì, per tre estati. Era sponsorizzata dall’Aviazione e costituiva uno dei modi indiretti attraverso il quale il governo finanziava la ricerca: invece di dare i soldi direttamente agli scienziati, li dava ai militari che poi li davano agli scienziati". Non è un po’ sospetto che la ricerca venga fatta con i finanziamenti militari? "Non è solo sospetto, ma anche paradossale". I suoi interessi matematici sembrano essere stati molto estesi, e anche un po’ incompatibili, nel senso che l’intuizione logica e quella geometrica sono molto diverse. Come è riuscito a conciliarli? In fondo, io sono un analista. Il problema dell’immersione era sostanzialmente analitico. In seguito mi sono interessato di equazioni differenziali alle derivate parziali. Trovando il grande teorema che lei e De Giorgi avete dimostrato indipendentemente. "Sì, lui è stato il mio rivale. A proposito, ecco un bell’esempio di un matematico religioso! Anzi, un esempio estremo di religiosità, quasi da monaco". E il fatto che anche lui avesse ottenuto lo stesso risultato le costò la medaglia Fields. "Non solo a me, anche a lui". Ma lei sembra esserci stato più vicino, nel 1958. Ci fu addirittura uno spareggio con Thom, no? "Mah, così si dice. Nel 1962 sarebbe stato più ovvio, ma io ero già disturbato mentalmente. Così la diedero a Hormander: uno svedese, in un congresso in Svezia …". Così lei ha perso la medaglia Fields, ma ha vinto il premio Nobel. Avrebbe preferito il contrario, se avesse potuto scegliere? "La medaglia Fields sarebbe stata molto prima, avrebbe cambiato il corso della mia vita. Se fossi stato sano nel 1962, avrei potuto prenderla: ero ancora nei limiti d’età. Ma il mio lavoro non fu immediatamente riconosciuto: nemmeno le cose più facilmente comprensibili, come il problema dell’immersione. In seguito, si cominciarono ad applicare i miei metodi in altri campi, ad esempio la stabilità del sistema solare con il teorema di Kolmogorov, Arnold e Moser…". E’ vero che a quel tempo ha cercato di risolvere l’Ipotesi di Riemann? "Questo lo dice il film. La funzione Zeta è certamente affascinante, ma io non ho mai seriamente attaccato il problema, nemmeno quand’ero malato. La teoria quantistica, quella sì. Ma probabilmente era un’illusione, una mancanza di buon senso, anche quando non ero legalmente matto". Siamo tornati alla legalità. "Dovrebbe essere chiaro che la malattia mentale è un concetto legale". Ad esempio, uno dice che fa miracoli e, invece di matto, lo chiamano santo! "Più che dirlo, bisogna riuscire a farlo dire a qualcun altro: non "io faccio miracoli", ma "lui fa miracoli". Meglio poi se a dirlo è un cardinale o un vescovo, con voce ispirata". Negli anni ’70, in Italia il movimento antipsichiatrico è riuscito a far chiudere i manicomi. "Tutti?" Sì, tutti. "Saranno però rimasti i reparti psichiatrici degli ospedali normali". Molti malati mentali sono stati effettivamente dimessi. "Negli Stati Uniti, la medicina psichiatrica è diventata un’industria: molta gente viene internata anche se non è veramente pericolosa. Non dovrebbe invece essere possibile senza il consenso del paziente". Lei ha sempre cercato di opporsi legalmente ai suoi internamenti. "La prima volta sono riuscito a farmi dimettere. Le altre volte ho tentato, ma senza grandi risultati. Credo che l’effetto sia stato duplice: può aver impedito certi eccessi di cure, ma aver prolungato la durata della detenzione". Lei ha detto esplicitamente di aver subìto torture. "Si possono interpretatare i coma insulinici e gli elettroshock come torture. Ma avvennero appunto in un periodo in cui non avevo un avvocato". Parlando più in generale, ci sono aspetti patologici nella Matematica? "Certamente c’è una mistica dei numeri, dalla quale a volte mi sono lasciato anch’io trascinare. Un musulmano mi ha mandato un libro in cui si cerca di mostrare che nel Corano c’è una struttura numerica nascosta, basata sul numero primo 19. Poi c’è il codice della Bibbia, che permette di ritrovare riferimenti a cose già accadute, benché mai profezie di cose che devono ancora accadere: non sarebbe male, trovare una vera profezia!". Il Socrate di Platone sentiva delle voci, che gli dicevano di non fare certe cose. "Durante la mia malattia anch’io sentivo delle voci, come quelle che si sentono nei sogni. Agli inizi avevo solo idee allucinatorie, ma dopo due o tre anni sono arrivate queste voci, che reagivano criticamente ai miei pensieri e sono continuate per vari anni. Alla fine, ho capito che erano solo una parte della mia mente: un prodotto del subconscio, o un percorso alternativo della coscienza". E poi hanno smesso? "Più che altro le ho soppresse io. Ho deciso che non volevo più sentirle o esserne influenzato". La rappresentazione delle voci che è stata fatta nel film l’ha soddisfatta? "Era un modo di rendere visibile e comprensibile queste cose. Sarebbe difficile farlo in maniera scientificamente accurata, perché non si può vedere dentro la mente di qualcuno". Ma lei, che ha visto dentro alla sua, non potrebbe scriverne? "Quando sarà il momento giusto per farlo, probabilmente avrò l’Alzheimer e non ricorderò più ciò che dovrei raccontare".

Dal Manifesto di ieri, invece, un’inconcludente (falsa?) apologia di Walter Weltroni e un paio di pezzi più interessanti:

«Conta l’essere, non l’apparire» L’arte regia di Walter Veltroni
Ida Dominijanni
Luci basse, vestito grigio a tre bottoni, camicia botton down sbottonata senza cravatta, Walter Veltroni entra sul palco dell’Auditorium della musica di Roma e guadagna il podio predisposto per il suo assolo di novanta minuti intitolato Che cos’è la politica. L’ouverture però non è per lui, l’uomo politico, ma per Charlie Chaplin, l’uomo di cinema. Il barbiere ebreo del Grande dittatore , «un piccolo uomo preso nell’ingranaggio della grande storia», pronuncia il suo celebre discorso sfidando Hitler con l’arma della parodia, anno di grazia 1940 dell’era nazista. Stacco, luci, ritorno al presente, anno di grazia 2006 dell’era democratica, 12 dicembre: il sindaco di Roma ora può cominciare a parlare. Le cronache di tre mesi fa hanno già raccontato questa scena, che da oggi, per chi l’avesse mancata dal vivo nei teatri di Roma, Napoli e Milano, va in libreria, testo scritto più dvd edito da Sossella per 15 euro, primo cofanetto di una serie che dopo la politica racconterà che cos’è la giustizia, il tempo, l’architettura, la bellezza, la democrazia e via dicendo. L’evento, va da sé, più che editoriale è politico. Anzi, trattandosi di Walter Veltroni, è politico perché è editoriale, ed è editoriale perché politico. Operazione di marketing? Gli si farebbe torto. «La politica è ‘arte regia’, non è una disciplina del marketing", recita il testo a pagina 11. «La politica non può essere sola immagine. Non può essere solo ‘far credere’, conquistare la curiosità delle persone per trasformarla in un consenso semplice e veloce fino alla prossima scadenza elettorale. Gesti, volti e sorrisi sono parte naturale di una politica moderna senza più l’aura sacralità di un tempo. Ma non sono nulla senza idee, senza convinzioni, senza progetti». A onta di chi ama ridurlo a «grande comunicatore» e basta, Walter Veltroni ci crede davvero, e in novanta minuti impiega passione, energia, convinzione a spiegare perché. Dopo Chaplin dallo schermo lo accompagneranno, nell’ordine, le immagini del crollo del Muro di Berlino il 9 novembre 1989, un colloquio fra Kohl e Gorbaciov di poco dopo, Sacco e Vanzetti, Martin Luther King (I have a dream), Vittorio Foa, Giovanni Bachelet ai funerali del padre, Enrico Berlinguer e Benigno Zaccagnini simboli di una moralità politica chefu, Barack Obama simbolo di un’America che forse sarà, De Gasperi e Craxi, John Kennedy nel suo discorso d’insediamento che apre i magnifici anni Sessanta, i premi Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, Nelson Mandela, Rigoberta Menchù. Fra le righe del testo invece, citati, gli fanno da sponda Hannah Arendt, Max Weber, Carlo Rosselli, Remo Bodei, e molti altri si intravedono non citati, da Claudio Napoleoni di Cercare ancora a Carlo Galli di Spazi politici. Lo scopo è «ridare bellezza alla politica». Bellezza: può la politica ritrovare una sua dimensione etica ed estetica? Oggi che la politica «fa fatica», appare «disorientata, in affanno, lenta, impacciata, in ritardo» rispetto al battito veloce della trasformazione globale? Può la politica ritrovare quella «ricerca della felicità» che era propria della polis greca, oggi che la spazialità della polis si è dissolta nella vastità sterminata della megalopoli? Può tornare a «far sognare l’impossibile, condizione minima per realizzare il possibile», oggi che «la parola ‘politica’ sembra consumata» e «delusione, distacco, rifiuto, ostilità» sono i sentimenti più diffusi che suscita? La bruttezza della politica, Veltroni lo sa e lo dice, ci appella dal presente e dal passato: guerre e violenze, dittature e genocidi. La politica è ambivalenza: conservazione e rivoluzione, liberazione e oppressione: dipende da che cosa decide di essere, dietro le maschere che non smette di indossare e dopo ogni eclissi in cui non smette di smarrirsi. Che cosa dev’essere, allora, «politica»? «Il calore di una missione condivisa». «Dare un senso al presente pensando al futuro». «Pensare se stessi in relazione agli altri». «Non lasciarsi vivere ma unire i propri passi a quelli altrui». «Abbandonare le facili certezze, lasciarsi attraversare dal dubbio, dalla curiosità, dalla voglia di cercare». Soprattutto, politica è «vocazione, non solo professione», «Ragione e passione insieme, come il timone e la vela per mare: senza il primo non si governa la direzione, senza la seconda si rimane fermi». Quando? Dove? Dopo il breve riferimento alla polis antica, la lezione veltroniana corre su un arco di tempo breve, brevissimo. Il 900 è marcato da Aushwitz e finisce con l’89; in mezzo è totalitarismo – compiutamente assunto nella versione equivalente di nazismo e comunismo – spezzato dall’irruzione delle masse nella politica e dall’esempio di quanti lottarono per la libertà. Il crollo del Muro è liberazione di energie e sprigionamento dalle ideologie: da allora, sostiene Veltroni, «la politica è più libera», malgrado il 2000 rischi di gettare via, del 900, «l’argento vivo dei valori col ferro delle gabbie ideologiche», malgrado l’epoca sia segnata dall’ansia, malgrado la catena del lavoro immateriale si sia solo sostituita a quella del lavoro materiale, malgrado le ingiustizie distribuite su scala globale riattualizzino sfide e speranze degli anni Sessanta. Il passato europeo è la cupezza del campo di sterminio, l’orizzonte è americano com’è americana quella Costituzione che mette la felicità a scopo della politica; e americana è la triade «libertà-differenze-pari opportunità» che sostituisce, e riduce, quella dell’Ottantanove francese. Del Pci, salvo la moralità di Berlinguer, non resta impronta: ma di questa tabula rasa si sa che Veltroni è stato fin da subito il più chiaro assertore. Nel suo genere, ci crede e mobilita credito. «Conta essere, non apparire. Nella vita, non solo nella politica». La politica ha perso l’aura tragica di Amleto. Più leggera, tornerà a volare?

La regina delle scienze all’Auditorium
Si apre oggi, presso l’Auditorium di Roma, il «Festival della matematica», quattro giorni di incontri, dibattiti e spettacoli dedicati alla «regina delle scienze». Un avvenimento che si preannuncia di grande interesse grazie alla presenza di un nutrito numero di ospiti la cui fama è tale da essersi estesa anche al grande pubblico e che il direttore della manifestazione, Piergiorgio Odifreddi, ha riunito intorno al tema «La bellezza dei numeri e i numeri della bellezza». Sarà Andrew Wiles ad aprire i lavori con una Lectio magistralis dedicata alle «Equazioni famose». Niente di più congeniale al grande studioso che ha svelato al mondo i segreti della famosa equazione scritta più di trecento anni fa dal giudice Pierre de Fermat sui bordi di una raccolta di sentenze.Con lui un altro gigante della matematica del ‘900, Michael Atiyah, premio Abel per il suo «teorema dell’indice», che ha rivelato inaspettati e profondi legami tra l’algebra e la geometria. Raro caso di matematico impegnato sul fronte pubblico, Atiyah è stato anche presidente di Pugwash, organizzazione di scienziati impegnati nella lotta contro la proliferazione nucleare. Esporrà le relazioni tra «Bellezza e verità in matematica», una bellezza che, peraltro, Alain Connes trasforma in una tra le principali ragioni a sostegno della sua fede platonica nell’esistenza reale delle entità matematiche. Connes è stato premiato con la medaglia Fields per le sue ricerche nel campo delle «algebre di operatori», elemento essenziale del linguaggio della meccanica quantistica, e si occupa oggi di applicare i suoi risultati alla fisica teorica. Un percorso opposto, il suo, a quello dell’astronomo John Barrow, che parlerà delle relazioni tra la matematica e la teologia. Al centro dell’intervento di Benoît Mandelbrot, previsto per domenica, ci saranno le geometrie frattali da lui introdotte per descrivere in termini grafici le forme naturali e la loro complessità. Subito dopo, l’appuntamento con John Nash, che con i suoi studi sulla teoria dei giochi non cooperativi ha fornito un fondamento matematico alla moderna teoria economica dell’equilibrio. Il suo intervento su «matematica e pazzia» ripercorrerà le tappe di una vita segnata dalla schizofrenia.

Nei numeri la misura della vera conoscenza – Paolo Zellini
«Quando sei in grado di misurare ciò di cui stai parlando, e di esprimerlo in numeri, allora puoi dire di conoscere qualcosa che lo riguardi». Così affermava Lord Kelvin, celebre fisico, ingegnere e matematico del XIX secolo, confermando implicitamente la vecchia tesi pitagorica che tutto è numero. Ma se si affida la conoscenza delle cose al numero occorre pure chiedersi: che cosa sono i numeri? Cercare di rispondere è come evocare le mille teste dell’Idra, perché tante sono le diverse specie di numeri e tante le prospettive da cui trattare ciascuna specie. Lo conferma un’importante osservazione di Hermann Weyl: cercando nel 1951 di riassumere mezzo secolo di progressi nella matematica, il grande matematico tedesco osservava che il campo dei numeri reali è come un Giano bifronte, che guarda in due direzioni opposte: da un lato l’esecuzione di operazioni aritmetiche, come l’addizione e la moltiplicazione, dall’altro le somme infinite e i processi al limite. Una è la faccia più familiare del numero, quella aritmetica e algebrica, l’altra è la faccia analitica e topologica, che coinvolge le grandezze continue, come il tempo o le linee che si tracciano su un foglio. Una divisione che dipende da due diversi significati dei numeri: ci immaginiamo innanzitutto un campo di numeri come un dominio chiuso, in cui le operazioni aritmetiche tra due suoi elementi danno un risultato che sta ancora nello stesso dominio. L’esempio classico sono i numeri razionali, cioè le frazioni, perché sommando o moltiplicando due frazioni si ottiene un’altra frazione. Versione aritmetica del continuo. D’altro canto, le frazioni non bastano. I matematici greci scoprirono che esistono grandezze incommensurabili, il cui rapporto non può essere uguagliato al rapporto tra due numeri interi, cioè a una frazione. Per questo sono stati introdotti i numeri reali, un campo molto più esteso che include i numeri razionali e i numeri irrazionali, e che sta alla base di tutte le nostre scienze. Esso fornisce la versione aritmetica del continuo, perché con un numero reale si riesce a dire quale lunghezza compete a una linea che nessuna frazione riuscirebbe a misurare: l’esempio più semplice è la diagonale di un quadrato di lato unitario, la cui lunghezza è uguale alla radice quadrata di due, che è appunto un numero irrazionale. Le moderne teorie assiomatiche, notava Hermann Weyl, avevano in qualche modo assecondato questa doppia prospettiva: la matematica non è la politica, diceva ironicamente, e non apprezza ambigue commistioni tra pace e guerra; ha quindi preferito separare in modo netto i due aspetti del numero, evitando conflitti di competenze. Egli aggiungeva però anche un singolare avvertimento: neppure alla metà del XX secolo, dopo secoli di progressi nell’analisi e nella teoria dei numeri, e dopo approfondite ricerche sui fondamenti, si poteva affermare di aver chiarito in modo definitivo tutte le questioni che riguardavano il concetto di numero reale. Questa difficoltà di chiarimento si deve anche a un’altra divisione di prospettiva, che risale a tempi relativamente remoti, tipicamente alla geometria greca, e che non è certo estranea alla doppiezza del Giano evocato da Weyl: la distinzione tra aspetti descrittivi e aspetti algoritmici della matematica. I primi hanno a che fare con l’esistenza e le proprietà di possibili soluzioni di un problema, per esempio di un sistema di equazioni; i secondi con la costruzione effettiva, passo per passo, della soluzione. Se si deve pensare a un’origine della matematica (per quanto sia possibile parlare di origine), il punto di vista algoritmico appare prioritario, in qualche modo più «primordiale», anche se sarebbe un errore grossolano pensare che si tratti solo di una connotazione «primitiva» della matematica, destinata a essere superata da concetti astratti più avanzati. È un fatto che nella matematica babilonese antica (circa 1800 a.C.) si avevano conoscenze relativamente avanzate di calcolo aritmetico, le cui formule, si è notato, assomigliavano molto più a programmi o procedure eseguibili da una macchina che a pure espressioni simboliche. Nell’India vedica una raffinata geometria serviva a costruire altari rituali di diverse forme e grandezze, prestando pure attenzione, ove la costruzione lo richiedesse, a complessi algoritmi numerici. Ora, per un misterioso caso di sincronia, le analisi di Hermann Weyl seguivano di poco una delle autentiche rivoluzioni scientifiche del secolo, cioè la costruzione – a Philadelphia, intorno al 1945 – del primo grande calcolatore della storia e il conseguente primo delinearsi della nuova scienza informatica. Un nesso tra le due facce di Giano. Non si trattava solo di un’innovazione tecnologica, perché il calcolo stesso, e le teorie matematiche che lo rendevano possibile, assumevano nuovi aspetti e si arricchivano di elementi inusitati. Si profilava per la prima volta un calcolo scientifico su grande scala, che affrontava problemi di matematica applicata di dimensioni inaudite, che implicavano la risoluzione – necessariamente approssimata – di migliaia di equazioni in migliaia di incognite. E tra le conseguenze di questa innovazione c’era pure la possibilità di riconoscere un nesso tra le due facce di Giano: infatti il nuovo calcolo doveva occuparsi di tradurre tutta l’informazione di un modello definito sul continuo, di un’equazione in cui le variabili assumevano valori nel campo reale, in un insieme di calcoli aritmetici, di somme e moltiplicazioni, eseguibili in modo automatico da un calcolatore. Herman H. Goldstine e John von Neumann, tra coloro che più contribuirono all’incipiente rivoluzione informatica, spiegavano che i problemi della matematica, dati di solito in termini di variabili continue, dovevano essere approssimati – per le esigenze del calcolo digitale – da procedure puramente aritmetiche e «finitiste». Il calcolo scientifico riesce a risolvere miracolosamente i problemi della matematica applicata con un insieme finito di numeri finiti che non è neppure un campo, perché non è chiuso rispetto alle operazioni: la somma e il prodotto di due «numeri di macchina» non è un «numero di macchina». Come affermava nel 1744 il grande matematico Leonhard Euler, nella perfetta macchina dell’Universo nulla accade che non segua un criterio di minimo (o di massimo): minima energia, minimo costo, minima distanza, minima superficie. Ma ora la macchina digitale, anche ignorando che cosa sono i punti di minimo e i numeri reali che li quantificano, li approssima con complesse strategie algoritmiche in cui si eseguono solo operazioni aritmetiche elementari. Non si tratta dunque di definire un nuovo sistema di assiomi che unisca le due facce del numero, ma di articolare un passaggio dal continuo al discreto per via di gradi successivi: approssimazione del modello continuo con un problema algebrico o aritmetico; scelta di un algoritmo efficiente per risolvere il problema algebrico e infine l’esecuzione automatica, in aritmetica approssimata, di questo algoritmo. Passaggi che implicavano regolarmente teorie e questioni difficili, di natura sia astratta sia concreta: teoremi e strutture della matematica «pura», errori di approssimazione, problemi di stabilità, possibili esplosioni di complessità algoritmica, sostanziale impossibilità di ingerenza o di controllo del soggetto umano nel corso del processo, analisi del significato dei numeri che il calcolatore stampa alla fine del processo. Da simili strategie continua a dipendere la possibilità di una matematica applicata, cioè di tutte le applicazioni scientifiche che oggi ci sono così familiari: dalle previsioni meteorologiche alla costruzione di automobili, dalle tomografie o risonanze magnetiche per immagini alle serie temporali, dai motori di ricerca alla trasmissione di segnali. Ma non bisogna neppure pensare che la matematica applicata fosse l’unica ragione e l’unica fonte di significati per il nuovo calcolo. Lo svela, se non altro, quella parola, «finitiste», usata da Goldstine e von Neumann a proposito delle procedure aritmetiche del calcolatore. Una parola che ricorda il carattere finito dei processi elementari e intuitivi dell’aritmetica in cui il celebre matematico tedesco David Hilbert, cercando di venire a capo della crisi dei fondamenti della matematica nel primo ‘900, individuava un nucleo di assolute certezze, una zona di sicurezza al riparo dall’infinito e dai suoi paradossi. E il calcolatore divenne infatti il più competente manipolatore di quel gioco algoritmico di segni al quale Hilbert voleva ricondurre, almeno in linea di principio, tutta la matematica. Su un piano più filosofico, si trattava pure di rivalutare il carattere intuitivo dei numeri e la tesi kantiana per cui «la struttura del ragionamento matematico è dovuta alla struttura del nostro apparato di percezione» (Hintikka), e dipende quindi, appunto, dall’intuizione, ovvero dalla sua forma pura, cioè non empirica. Su questo punto, almeno, c’era pieno accordo tra Hilbert e Brouwer, suo avversario per altri versi, ma pienamente concorde nel riconoscere una base di affidabilità alle costruzioni elementari dell’aritmetica. Tra le migliori procedure che dovevano approssimare i problemi della matematica Goldstine e von Neumann menzionavano gli algoritmi iterativi, che si basano tipicamente su un criterio di invarianza: per tutto il processo si eseguono in qualche modo le stesse istruzioni, cioè si calcola la stessa funzione per diversi valori della variabile. Conosciuti da tempi remoti, ripresi dai matematici arabi, dagli algebristi italiani del ‘500 e poi da Viète e da Newton, questi algoritmi, che imitavano inizialmente certe costruzioni elementari della geometria, servirono ad edificare la computatio algebrica, l’analisi moderna e lo stesso calcolo scientifico nel ‘900. In questa nuova prospettiva i numeri moderni ritrovano una strana rassomiglianza con quelli antichi. Si dice di solito che i Greci, pur avendone la possibilità, non seppero generalizzare il concetto di numero intero naturale (arithmos), impresa che toccò alla matematica occidentale moderna, che seppe infine concepire e definire in modo rigoroso i numeri reali e complessi, i quaternioni, i numeri transfiniti e i numeri non-standard. Ma sarebbe più giusto affermare che i Greci ricavarono per astrazione dalla geometria, dalla meccanica e dall’aritmetica il concetto generale di logos, che in matematica voleva dire rapporto, e che da questo concetto di logos ebbero origine le generalizzazioni moderne, in particolare il concetto di numero reale (razionale o irrazionale). Il numero reale pensato come «sezione», ovvero come una partizione in due classi di numeri razionali, riprende infatti – come lo introdusse Richard Dedekind nel 1872 – il concetto di proporzione del V libro degli Elementi di Euclide. Nella definizione di Dedekind si rivela pure un tratto caratteristico della matematica di fine ‘800: ripensare il numero, per così dire, dal nulla, riconducendolo all’idea di insieme e alle relazioni tra insiemi. Un tratto che ispirò regolarmente il tentativo di ricondurre la matematica a pochi concetti fondamentali della logica, da Bertrand Russell fino a Willard van Orman Quine. Ma un presupposto della teoria di Dedekind sono anche gli algoritmi, perché in origine le classi della sua definizione consistevano in insiemi di frazioni effettivamente calcolate, che approssimano il numero per eccesso e difetto. Un’analoga osservazione vale per la definizione di numero reale dovuta a Georg Cantor. Il concetto di classe o di insieme poteva insomma rivendicare una priorità logica, ma storicamente sono venuti prima gli algoritmi. Uno schema che è una necessità. Ora, con il nuovo calcolo scientifico, l’algoritmo rivendica, in un certo senso, il suo statuto di concetto «primordiale» che sta alla base del numero. Il numero reale non è un ente calcolato o calcolabile con un algoritmo: è piuttosto, esso stesso, un algoritmo. Una scatola nera, propone ad esempio Lovász, in cui si inserisce la precisione che si vuole ottenere nel calcolo delle sue cifre, e da cui esce il numero alla fine del processo. Dentro la scatola potrebbero pure funzionare gli stessi algoritmi che gli antichi Greci, Indiani o Babilonesi usavano in tempi remoti; non esattamente quelli, ma altri che ne riprendono, in modo sorprendentemente simile, lo schema; quasi che questo schema fosse una necessità, una sorta di a priori nel grande avvicendarsi storico delle idee matematiche.

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