Salomé

Una delusione, a quanto pare. Spero non sia effetto dell’avversione per Albertazzi a causa del suo passato di convinto fascista (avversione che condivido ma che non ha nulla a che vedere con il suo talento di attore). Articolo, nauralmente, dal Manifesto di oggi, sul quale segnalo anche "Feltrinelli, il film invisibile" di Cristina Piccino e […]

Una delusione, a quanto pare. Spero non sia effetto dell’avversione per Albertazzi a causa del suo passato di convinto fascista (avversione che condivido ma che non ha nulla a che vedere con il suo talento di attore). Articolo, nauralmente, dal Manifesto di oggi, sul quale segnalo anche "Feltrinelli, il film invisibile" di Cristina Piccino e l’articolo sulla XVIII edizione del Trieste Film Festival.

Salome, un’opera priva di sensualità messa in scena da Giorgio Albertazzi – Arrigo Quattrocchi
Roma È consuetudine, per un teatro d’opera, scegliere come titolo inaugurale della propria stagione una partitura che coinvolga tutte le maestranze in un grande sforzo produttivo. Inusuale e curioso, dunque, che l’Opera di Roma inauguri la stagione 2007 con Salome di Richard Strauss, capolavoro tratto dal dramma di Oscar Wilde, che però, non prevede né coro né corpo di ballo, ed è un atto unico della durata di circa un’ora e trentacinque minuti. Forse per dare maggiore sostanza alla breve serata, Giorgio Albertazzi, chiamato a curare la regia dello spettacolo, ha premesso all’opera di Strauss una sorta di prologo in prosa, lungo un quarto d’ora, nel quale quattro attori – Maruska Albertazzi, Anita Bartolucci, Sergio Romano e lo stesso Albertazzi come voce off – accompagnati dal percussionista Marco Distaso, leggevano di fronte a un leggio un testo che l’attore-regista ha tratto da Wilde. Dispiace dire che questo prologo in prosa è sembrato ingombrante e inutile – oltre che mal recitato, Anita Bartolucci eccettuata – e soprattutto frutto di un equivoco interpretativo. Salome è infatti l’opera che mette in scena il desiderio carnale della giovane Salome verso la fisicità corporea di Jochanaan, desiderio ancor più scandaloso per la santità del corpo concupito, e culminante nel bacio necrofilo sulle labbra della testa mozzata del Battista. Albertazzi invece, nel prologo come nell’opera, sembra preoccupato di evidenziare soprattutto l’eccitazione lubrica del maturo Erode nel vedere nuda la giovane Salome-Lolita, tematica senz’altro secondaria nell’economia del dramma. Lo spettacolo che segue è poi nell’insieme assai modesto. La scena di Lorenzo Fonda – una terrazza con una gradinata e una enorme luna che si eclissa – è assai tradizionale, salvo che sostituisce la cisterna dal cui profondo proviene la voce del profeta con una costruzione laterale, che, al termine, si ribalta trasformandosi in una enorme testa mozzata di gesso. È una scultura che, passato il colpo d’occhio, non scalda i sensi ma li raggela. In questo spazio i cantanti, che indossano costumi di Elena Mannini ispirati a Beardsley, sono mossi, con l’aiuto di Tito Schipa jr., in modo piuttosto banale e goffo, ivi compresa la danza dei sette veli coreografata da Gabriella Borni, con quattro danzatrici che attorniano i movimenti geometrici della protagonista. La quale è Francesca Patanè: voce vibrata che si sfoga negli acuti e si spegne nei centri, e canta in tedesco senza duttilità ed espressione nel fraseggio. Nel cast convince pienamente solo l’Erode di Reiner Goldberg, di grande incisività. Sul podio Günther Neuhold offre una prova precisa ma priva di dinamica, probabilmente perché ha avuto pochi giorni di prove per sostituire un collega malato. Manca così a tutti i livelli, in questo spettacolo, l’elemento irrinunciabile della Salome, la sensualità. Si è creduto di sostituirla con un nudo femminile molto pubblicizzato alla vigilia, che risulta però un po’ cheap nella sua banalità. Motivo non ultimo per cui questo spettacolo inaugurale risulta forse il meno convincente di quanti siano stati presentati da molti anni a questa parte.

Immagine: Salomé di Gustave Moreau

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